Foto che non ho scattato io, e che viene da un altro concerto ma dello stesso tour

Sonny Rollins oggi ha ottant’anni, e li dimostra tutti – curvo, claudicante, sembra che il peso del sax tenore possa spezzarlo a metà da un momento all’altro. Attacca a suonare verso le nove e mezzo, in un Europauditorium gremito, e andrà avanti per ben due ore. La band è, grosso modo, la stessa che lo accompagna da tempo: il fedelissimo Bon Cranshaw al basso, Russell Malone alla guitarra (personalmente lo preferisco a Peter Bernstein), Kobie Watkins alla batteria e Mardoqueo Figueroa alle percussioni. L’avvio in realtà non è dei migliori, lo show è aperto da un calypso (che non riconosco ma poco importa), Sonny a volte appare incerto, emette note traballanti e quando prova a squarciare i fraseggi più lenti con sventagliate ad alta velocità sembra a corto di fiato. Speriamo bene, mi dico, e credo che molti dei presenti abbiano avuto pensieri dello stesso tipo. Dieci minuti dopo, a fine brano, gli applausi sono comunque scroscianti, perché vogliamo tutti bene a Sonny. E tutte le speranze si riveleranno ben riposte, perché dal secondo brano, un torrenziale blues tinto di Caraibi dalle pennellate della chitarra di Malone e dal reticolo di percussioni, il Colosso si rivitalizza, il suo fraseggio si fa robusto e sicuro su tutta l’estensione, quei bassi da vaporiera e quegli attacchi taglienti si combinano in mille modi con glissandi e un vibrato quasi subliminale, come un’evocazione del maestro Coleman Hawkins. E’ fatta, ora Sonny si è scaldato e può cominciare a sbriciolare culi con grande generosità e ammirevole scioltezza. La band si coagula in un’onda ribollente di ritmi afrocaraibici su cui il leader può volteggiare a proprio piacimento, libero di prendere i temi e trasformarli, scomporli e modificarli con la sua classe inimitabile, come se li passasse attraverso una serie di specchi deformanti che alla fine restituiscono un’immagine chiara, nitida e bellissima. C’è spazio per una ballad, You don’t know what love is, anch’essa latinizzata e carica di atmosfera, in cui Sonny ad un certo punto suona senza accompagnamento e vola in un uragano di lick e brevissime citazioni che si susseguono senza pause. Ad un certo punto si ferma, si rivolge al pubblico ed esclama “What the fuck am I doing? I don’t know!” e lo dice in maniera tanto spontanea e buffa che ci mettiamo tutti a ridere, così come nel “Oh, whatever!” di pochi secondi dopo. Due i bis, una lunghissima St Thomas e un’ancora più lunga Don’t Stop The Carnival, super funky e trascinante, con Rollins a suonare di fronte al pubblico che nel frattempo aveva lasciato i sedili e si era accalcato a ballare sotto al palco (me incluso ovviamente). Sicuramente il modo migliore per concludere una serata meravigliosa, e la conferma di come una musica tanto complessa, ok, ma anche tanto ritmata e vitale la si goda molto meglio in piedi e liberi di muoversi.

Nel 2010, Sonny Rollins è certo vecchio nel corpo, ma lo si nota solo quando cammina e si muove. La sua mente è ancora lucida, però, ed è capace di dar vita a spettacoli di livello siderale ancora oggi. Sonny Rollins è uno degli ultimi titani di un’era ormai tramontata. Tornasse fra un mese ci riandrei. E chi non ci va, il budello di su’ ma’.