Category: ti spacco la merda con la mia stessa merda


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“Ah-ah, i documenti dell’attentatore!”
“Ma ci credono stupidi? Anche questo attentatore lascia i documenti in vista?”
“Kit dell’attentatore: armi e documenti!”

Un breve campionario di robe lette nelle ultime ore. Posso capire l’iniziale stupore, ma il fatto che succeda ad ogni attentato dovrebbe far riflettere le persone. No, non che gli attentati siano dei folsz flagsz come sostengono i coglioni complottisti vari, ma che forse c’è un motivo ben preciso. Qui si parla di terroristi islamici suicidi, che VOGLIONO far sapere il loro nome. Fa parte della cultura stessa che li produce. Il martire per Allah è un eroe, e gli eroi si celebrano. Non per niente, i terroristi vari sono oggetto di venerazione in certe zone del Merdistan e in tante comunità merdistane all’estero ove si provino simpatie estremiste. In più c’è anche un altro aspetto, più pratico: comunicare, ad eventuali organizzatori o finanziatori, che il piano ha funzionato. Da morti, di solito, è difficile.

Naturalmente, non sempre va tutto liscio, suppongo possa capitare all’ultimo di cacarsi addosso dalla strizza, oppure fughe rocambolesche per evitare di esser presi dalla pula. In ogni caso, il terrorista suicida si chiama così non per figura. E martire nemmeno, proprio anche nel senso etimologico di testimone della propria fede.

E dire che, per scrivere queste cose, non ci vuole una laurea cultura orientale, eh.

Qualche tempo fa surfavo YouTube per rivedermi alcuni filmati di Andrea Diprè, quando ad un certo punto l’occhio mi casca su un video dei related. Il video è Pettinero, di Il Pagante. “Ma che nome del cavolo è, Il Pagante? E Pettinero che vuol dire?”, è il nuovo martellante interrogativo, che posso soddisfare solo in un modo: cliccando al volo, ovviamente. E mi si materializza un universo. Uno trio di giovanissimi, quelli fotografati qui sopra, cioè Eddy Virus, Roberta e Federica, milanesissimi, che fanno canzoni da discoteca truzze e scazzone incentrate sulla figura del Pagante, ovvero il tipo di età 16-25 che vive per andare in discoteca il fine settimana, tira a campare a scuola, e spera sempre di entrare in pass, ovvero su qualche guest-list di qualche pr amico di amici che gli permetta così di risparmiare sull’ingresso e avere più soldi per sbocciare, ovvero spaccarsi vodka e superalcolici, ma pure qualche canna non guasta, e magari ci scappa pure un afterhour. Poi il lunedì ricomincia tutto da capo, in attesa del weekend. Tutto ciò su basi electro essenziali e testi in bilico fra celebrazione e presa per il culo dei paganti e del loro universo.

Guardando tutti i clip presenti, si nota la progressiva crescita del progetto. I primi clip, come Entro In Pass o Balza, sono fatti veramente con due lire, o meglio, con gli smartphone. Le canzoni sono molto più grezze e inciospolano fin troppo nei tormentoni, con rime che funzionano per il rotto della cuffia. Ma l’insieme risulta tanto casereccio quanto divertente. E’ con #Sbatti che le cose si fanno molto più professionali, sia nella canzone che nel video. Da lì avviene la crescita, basta confrontare i primi clip con Pettinero o l’ultimissima Faccio After. La diffusione virale dei video ha innescato un processo abbastanza ovvio: i tre ragazzi, chi fa le basi e chi gira i clip hanno deciso di fare le cose più seriamente, complice anche la crescita tecnica. Gli ultimissimi due video potrebbero far parte della programmazione di MTV, ormai. Ci sono pure due ospiti, ovvero il solito Diprè e uno dei Club Dogo. E poi c’è una cosa che mi diverte un sacco: il momento in solitario di Roberta (la ragazza più alta), che getta merda su tutto quello che era stato edificato dal video fino a quel momento, col nonsense del Monclair o con le rime sull’inconcludenza del Pagante. Un giuoco fra amici che si è, insomma, trasformato in qualcosa di più, visto che Il Pagante fa tour lunghissimi in giro per le discoteche italiane.

E’ chiaro come il sole che Il Pagante ha tutto quello che serve per scatenare l’odio di qualsiasi Oplita del Bene nel raggio di 1000km. Ma se ci si riflette, sono l’unica cosa veramente messa di traverso nell’ambito della paralitica musica italiana, che gravita tutta attorno all’imminente Festival di Sanremo. Già, il Festival, l’evento in cui, per una settimana il mondo dei vivi e quello dei morti coesistono. Dove si fanno sempre infinite polemiche sui fiori, le vallette, le presentatrici, il presentatore, gli ospiti, i valori. Dove vecchie glorie hanno l’unica chance annuale di farsi sentire e, anche in caso di vittoria, di sparire subito dopo. Dove nuovi eroi possono vincere ed essere dimenticati subito. Dove gli eroi dell’Italia alternativa hanno l’unica occasione di recuperare popolarità quando il loro pubblico ormai li ha sfanculati.

E Il Pagante, in tutto ciò? Il Pagante, cari i miei fanzi della musica indiependente diqualità, sono l’unica indipendenza che ci sia. Sono, da qualsiasi punto di vista, incompatibili con Sanremo. Le loro canzoni parlano di deboscio alcolico e fancazzismo dall’ottica del mantenuto perdigiorno, sono casiniste e moleste. Non possono andare a Sanremo ora, non ci potranno andare in futuro, nemmeno ad accompagnare in duetto la Berté (o Bertè). Sarebbero fuori luogo quanto gli Slayer o la prima di un concerto per oboe di William Bolcom. Ma non si può dire la stessa cosa di Brunori SAS, Pierpiero Capovilla e Vasco Brondi, quando saranno disperati che nessuno li caga di striscio e vorranno portare MUSICA DIVERSA a Sanremo scompaginando l’asse nostalgia-buoni sentimenti con LA QUALITA’ CHE NON PREMIA perché non si può impostare un discorso sulla qualità in Italia porcoddio, però magari si pigliano il premio della critica e potranno lucidarlo e rimirarlo tutti viscidi e chini protettivamente su di esso a mo’ di Gollum. Loro sì, finiranno a Sanremo ben felici. Il Pagante, no. Il Pagante è alternabbestia e un bel dito nell’occhio al culturame bollito e snob, quello che di sicuro li accusa di degrado e corruzione dei giovani, o di rappresentare il degrado di questo paese, quindi qua dentro sono i benvenuti. Arrendetevi, indiesfiga, che loro sono molto più indie di voi. Oltre che più bravi, vabbeh, ma quello pure io.

Il plebiscito per Renzi, lì per lì, l’ho preso così, tranquillone – come dire, ok, la cosa importante è che Peppe sia stato preso a ciabattate e che non sia emerso qualche minaccioso coagulo di estrema dx antieuropeista sbroc sbroc. Va beh che all’orizzonte non c’era, ma meglio esser sicuri. Insomma, Renzi col 40% o similia, uno stacco netto nettissimo. Dopo qualche giorno, cioè, oggi, mi viene in mente una cosa: siamo ad un punto di svolta. Nel modo di condurre le campagne elettorali in Italia, dico. Perché finora gli avgvsti, colti et preclari polytici di sx hanno sempre seguito alla lettera le indicazioni contenute in “Perdere Le Elezioni Sistematicamente For Dummies”, in particolare la regola n.1 del Decalogo dello Sfigato: mai pensare di sottrarre elettori all’Avversario, pena la contaminazione. L’elettore dell’Avversario, difatti, che cos’è? Le Cronache individuano un bruto che sa a mala pena leggere e scrivere (far di conto, in Italia, non è considerato importante, il sapere scientifico è merda), guarda solo Italia 1, Rete 4 e Canale 5, evade le tasse a più non posso, è un imprenditore veneto/lombardo (possibilmente colluso con la mafia) o in alternativa una sciampista col sogno di diventare velina, o un coatto analfabeta che vuol diventare calciatore. Detto elettore veniva sbeffeggiato e denigrato ovunque, nelle Cronache come nei cenacoli della Parte Sana del Paese. Che in quanto sana voleva pure restare incontaminata: non possiamo mica mescolarci a questa feccia, magari son pure contagiosi!

Falco grillaio

Ebbene, perseguendo questa strategia con stolida determinazione, i nostri ganzoni non sono mai riusciti ad andare al governo, se non un paio di volte in sgangherate coalizioni tenute insieme con lo sputo e pronte a cadere al primo scossone. Applicando il loro credo, ripetendo ogni tre per due “solo chi ci vota (o voterebbe) fa parte dell’Italia Migliore, gli altri sono una subrazza di evasori analfabeti”, hanno ottenuto sempre e solo i voti di chi li vota o voterebbe, senza convincere gli indecisi che hanno risposto con roboanti vaffanculi agli insulti. Allo stesso tempo, Peppe non ha fatto di meglio: merda, vaffanculo, tutti a kasa!1!1! ogni tre per due, chi non ci vota è colluso mafioso massone ki ti paka!1!!, con in più l’assordante massa di mongoloidi su internet che rendono veramente pesante l’atmosfera. Renzi deve aver capito, primo fra tutti i politici degli ultimi vent’anni, che se errare è umano, perseverare è diabolico. E quindi non ha insultato nessuno, lasciando che gli altri si fregassero con le proprie mani. Chapeau!

Di qui a dire che saran tutte rose e fiori, ewwywa Renzi etc etc è tutto da vedere. Purtuttavia, vedo esattamente in questo un fatto positivo e incoraggiante. Nel fatto che ci sia un astuto cervello che mette nel sacco, con una mossa quasi invisibile, un’ampia congerie di teste di merda.

L’unica cosa “Dal Basso” degna di interesse.
Movimenti politici, iniziative, scioperi etc. sono la stramerda che deve andarsene a fare in cazzo. Ed è “dal basso”, ma si omette sempre “del QI medio dei partecipanti.”

Albert Einstein è famoso, quindi non vi spiego chi sia nè come lo sia diventato. Non ho nemmeno niente da dire su di lui nello specifico, quanto piuttosto prenderlo ad esempio di come, da alcune semplici proposizioni, si tendano ad estrarre informazioni false ma consolatorie, solitamente in maniera del tutto strumentale.

“Pure Einstein non era bravo a scuola.”
Ok. Cosa possiamo inferire da questa irrilevante informazione? Che un genio della fisica come Einstein non fosse bravo a scuola. Generalizzando, che non essere bravi a scuola non significa essere trogloditi ignoranti destinati ad una vita di sbozzamento scalini in usocapione. Strumentalizzando, che non esser bravi a scuola implica genialità non riconosciuta da un estabilishment non meglio identificato.

“Pure ad Einstein davano del pazzo per la teoria della relatività.”
Ok. Cosa possiamo inferire da questa irrilevante informazione? Che inizialmente la teoria di Einstein sia stata accolta con scetticismo. Generalizzando, che una teoria, SOTTOPOSTA ad una pubblicazione scientifica, superando la peer review e messa a disposizione di scienziati e ricercatori di tutto il mondo, possa alla fine convincere in virtù di esperimenti indipendenti, dibattiti etc. Strumentalizzando, che chiunque se ne esca con un’apparente stronzata in realtà va ascoltato perché ehi, magari pure lui alla fine c’ha ragione.

Mettendo insieme queste cose, Einstein non fu un brillante studente, tuttavia poi dopo essersi laureato & dedicato alla fisica ha elaborato una teoria, poi l’ha sottoposta ad una rivista scientifica accademica. Quest’ultima, dopo peer review, l’ha pubblicata (testo originale in tedesco, traduzione). La comunità scientifica internazionale a questo punto si è trovata in mano tutti gli elementi per poter compiere gli stessi studi ed eventualmente contestare, sulla base di altri articoli, la teoria della relatività ristretta. Chiaro, fin qui, no? E’ come funziona il mondo della scienza, quella che funziona e permette avanzamenti e progressi. Con le sue storture inevitabili, ok, che tuttavia non invalidano il sistema in sè, in cui sono gli scienziati ad avere l’ultima parola.

Adesso arriva la bruttura del 2013, ovvero il metodo Stamina su cui non mi pare di aver mai scritto un cazzo perché mi dava troppo sui nervi. Oggi leggo che il TAR sospende la bocciatura del metodo maledetto. Non so se vi rendete conto, ma il team di esperti (=MEDICI, SCIENZIATI) sotto la direzione del Ministero della Salute aveva detto vaffanculo Stamina, e allora lo stronzo lì della Stamina ha fatto ricorso al TAR, e quest’ultimo gli ha pure dato retta, perché pare necessario che alla commissione «partecipino esperti, eventualmente anche stranieri, che sulla questione non hanno già preso posizione o, se ciò non è possibile essendosi tutti gli esperti già esposti, che siano chiamati in seno al Comitato, in pari misura, anche coloro che si sono espressi in favore del metodo». DIO CANE, si può? Ma maledetta la Sacra Sindone! Sarebbe da ridere, non fosse per la gran voglia di prendere tutti questi imbecilli e tirarli in una gabbia di leoni a digiuno da una settimana. In definitiva, la vox populi col megafono dei giudici ha più peso del parere degli scienziati, in pieno italian style. Soprattutto quando, ad oggi, lo stronzissimo metodo Stamina dimmerda non è mai stato sottoposto a peer review, non è un cazzo, non si sa come dovrebbe funzionare, niente.

Più si va avanti, più stregoni bastardi maledetti stile Stamina riusciranno a farsi largo. Perché vengono con una ricettina pronta all’uso che dà barlumi di speranza, anche se non si capisce bene sulla base di cosa, e poi contrastano le obiezioni con la solita retorica della lobby Big Pharma sbroc sbroc. Radunano gruppi numerosi, probabilmente sempre più numerosi col passare del tempo, e i numeri servono per consenso e voti. La democrazia dell’ignoranza e del mongoloidismo come norma unica dell’esistenza, alla faccia dello studio e dell’informazione, prosegue imperterrita. Beh, se non altro, tutta ‘sta gente che si cura col guano di archeopteryx conservato sotto rapanello si sottopone involontariamente ad un esercizio di darwinismo. Peccato solo che nasceranno sempre nuovi stregoni pronti a irretire nuove legioni di gonzi, in una spirale merdosa inarrestabile. Fanculo.

Laura Boldrini, dio cane, ma ci stai zitta e te ne vai tre passi a fare in culo? No, veramente. Lo starnazzo moralista da pruderia morigeratona DC è la cosa più indescrivibilmente stupida, fastidiosa, fallimentare e deficiente dai tempi dell’invenzione delle zanzare. Per il resto, si può rileggere questo post.

Se c’è una cosa davvero strana, ai limiti dell’incomprensibile, è la smodata passione per i Queen che caratterizza moltissimi metallari italiani. I Queen sono un gruppo di enorme popolarità, uno dei più amati al mondo e quindi potrebbe essere lecito aspettarsi un alto numero di Queen-fan pure fra i kid di casa nostra. Eppure i Queen incarnano meglio di chiunque altro tutto ciò che i metallari solitamente detestano, cioè il gruppo più fumo che arrosto, ruffianissimo e sempre pronto a seguire le mode del momento. Sono fatti evidenti a chiunque non abbia occhi e orecchie foderate di biroldo e magari non faccia parte dell’isterico fandom della Regina, eppure molti metallari negano. Non solo: pur essendo solitamente fieri delle conquiste del metal (e a ragione), li vedrete spesso chinare la testa e genuflettersi di fronte alle filastrocche di Mercury e compagnia, che sono così belle che mamma mia (rima)! Del resto pure chi scrive, una volta, apprezzava un sacco i Queen, assieme ad altra robaccia come le produzioni anni ’80 di Sting, Elton John, Rod Stewart, Joe Cocker e altra merda analoga. Nell’estate della terza media (1990) mi prestarono una cassetta registrata dei Queen, con svariati hit degli anni ’80 più qualcosina dei ’70 (di sicuro “We Are The Champions”, “We Will Rock You” e “Bohemian Rhapsody”, forse “Somebody To Love” ma non ci giurerei). Wow, mi parevano davvero troppo superfighi, ma davvero una roba mai sentita. Poi l’anno successivo arriva il metal, e accade che qualsiasi band del nuovo genere appena scoperto suonasse, alle mie orecchie, molto meglio dei Queen, anche se inizialmente magari non me lo volevo ammettere. Poi muore Mercury, grande commozione, aumento smisurato del bimbaminkismo queeniano etc etc, io comunque alla fine avevo da stare dietro al metal, che mi piaceva davvero molto di più. E per forza, vuoi mettere “1916”, “Painkiller”, “Vulgar Display Of Power”, “Badmotorfinger”, “Pump”, “Reign In Blood”, “Somewhere In Time” o “Arise” con “Innuendo”? Durante gli anni non sono mai tornato sui miei passi, anzi, più aumentava la mia conoscenza del rock in generale più i Queen perdevano terreno. Qui però finisce l’excursus biografico-nostalgico, bisogna tornare sul pezzo.

Possiamo prendere la prima fase dei Queen, quella glam-hard, come la più genuina e interessante. Soprattutto in “II”, un album di rock epico ed eccessivo, come se Marc Bolan avesse deciso di suonare con gli Uriah Heep o viceversa, con in più lo spirito della farsa cabarettistica. In quell’album funzionava tutto: i Queen erano maestosi, ma non si prendevano sul serio – pur flirtando con l’orrenda piaga del rock sinfonico, ne tenevano a bada i peggiori eccessi… con l’eccesso di ridicolo. I loro marchi di fabbrica, cioè un certosino lavoro di sovraincisione in studio, essenziale per ottenere i famosi cori da operetta esplosivi come una sezione di fiati e la tediosa chitarra “sinfonica” di Brian May, una teatralità da music-hall che a volte deraglia nel montaggio di demenziali sketch sonori (come definire altrimenti “Ogre Battle”?) e arrangiamenti barocchi erano già ben presenti, l’ispirazione al picco. I dischi immediatamente successivi sono organizzati proprio come spettacoli di music-hall, ogni canzone è un “numero” differente in cui cambia lo stile ma non lo spirito: ritornelli orecchiabili come filastrocche o ninnenanee, cantati con tutti i vezzi di una Marie Loyd e gran dispiego di arrangiamenti elaborati. In questo senso va interpretato l’apparente eclettismo dei Queen: è come se avessero imparato diversi stili di musica da un’enciclopedia per usarli poi tipo attrezzi di scena. Oppure possiamo pensare ai Queen come ai cicisbei del rock, con tanto di parrucca, cipria e pomata, un fluente eloquio e in testa un sacco di nozioni apprese dal retrocopertina dei libri; quanto basta per intrattenere una dama con galanterie e buone maniere durante una serata mondana.
La barca regge fino a “A Day At The Races” compreso, sebbene ogni nuovo album mostri già un numero di riempitivi maggiore del precedente.  A partire da “News Of The World” comincia un processo di normalizzazione che appiattisce la band su un generico sound rock-pop, appena un po’ più affettato e magniloquente della media, in perfetta sincronia con l’estinzione del glam e la crisi dell’hard rock. Il music-hall (tratto distintivo e cifra stilistica originale dei Queen) viene sostituito da un eclettismo facilone e vanesio che si traduce in flirt col gospel (“Somebody To Love”), il r’n’r di Elvis (“Crazy Little Thing Called Love”), le atmosfere da crooner (“My Melancholy Blues”), il recupero dell’hard rock (“Sheer Heart Attack”), il funky (“Another One Bites The Dust”) e in un progressivo inserimento di synth e tastiere, nel vano tentativo di ritrovare l’ispirazione. Nel 1982 “Hot Space” tenta addirittura di saltare sul carrozzone della disco music con appena sei o sette anni di ritardo e a denti strettissimi pure i fan ammettono che non sia esattamente questa bellezza.
Nella seconda metà degli anni ’80 i Queen pubblicano album banalissimi e trascurabili, ma di enorme successo, allineati al pop deluxe del periodo. Solo il timbro di Mercury e il solito gusto melodrammatico li distinguono dal resto della musica da classifica: i Queen sono perfettamente a loro agio con Wham, Culture Club, Tears For Fears, Simply Red etc, tutti gruppi a cui si accodano in termini di suono, produzione e arrangiamento. Il percorso dei criticatissimi Metallica, al paragone, è lineare quanto quello di AC/DC o Iron Maiden. E dunque, come spiegare tutto l’affetto dei metallari italiani per una band che, numeri alla mano, dovrebbe incarnare ai loro occhi tutto ciò che odiano nel music biz? Ci viene in soccorso l’età, perché la Queen-sindrome colpisce soprattutto i metallari dai trentacinque anni in giù, soggiogati in età teenageriale dal mito post mortem di Freddie Mercury. Un grande cantante e showman nonché grandissimo edonista (e qui mi levo il cappello), desideroso di piacere e di intrattenere il suo pubblico che in cambio gli permetteva di fare una sacrosanta bella vita in fantastiche ville a South Kensington. Un nobile fine comprensibile e condivisibile, che però non dovrebbe redimere dozzine di canzoni orrende.
Bah, valli a capire i metalz.

(Post apparso, originariamente, qui. Lo riciclo per pigrizia e per linkare un blog metal diverso dal solito cui partecipo time permitting Frank Sinatra e chi coglie la citazione è un genio.)

In realtà questo post nasce un po’ così, ovvero mi è venuta in mente il titolo (“Emma Marrone Is The New Sabrina Salerno”), che è una roba stratosferica da oscar della rete, ma non un post. La bozza contentente titolo e l’immagine qui sopra, scelta per dimostrare la veridicità dell’affermazione, almeno per le cose realmente importanti, è data al 27 di maggio. Quindi insomma, è passato un bel po’ di tempo, e io non sapevo davvero che scrivere. Non certo un parallelo musicale fra le due, perché chi se ne frega dai, non fa nemmeno ridere. E però la musica ce la volevo infilare, in qualche modo, visto che sia Emma che Sabrina sono cantanti. E dunque, mettiamola così: 1) puppe, 2) entrambe sono esponenti di successo della musica da classifica del rispettivo periodo storico, 3) entrambe sono schifate dalla gente che detesta la roba da classifica in quanto tale e fa della dialettica commerciale vs anti-commerciale il proprio filtro di valutazione della realtà.

“Ahahaha, coglione, tornantene a sentire la Salerno/Marrone!”

Questa frase, e infinite varianti, sarà stata pronunciata milioni di volte. La cosa interessante è adesso questa: è molto probabile che oggi chiunque pronunci quella frase ascolti musica infinitamente peggiore di quella di Emma Marrone, che pure è una simpatica & popputa guagliona ma insomma rompe veramente la coglia. Ma che dire di antipatici sfigati come praticamente l’intero arcipelago dell’Indie Italiano, da cima a fondo? Al confronto, Emma diventa Shemekia Copeland!

Per esempio, prendete il trafiletto qui sopra. E’ una lettera di un imbecille, tale Steve Morrissey di Manchester, che demolisce i Ramones. Caso volle che, qualche anno dopo, questo tizio diventasse il cantante di una delle tre più ripugnanti band della storia della musica PII (Prima dell’Indie Italiano), ovvero gli Smiths. Il punto è: in retrospettiva, si capiva già che ‘sto tizio era un coglione e andava interdetto dagli studi di registrazione. E i fan italiani degli ombrosi, tormentati e intensi Smiths, al tempo, di sicuro schifavano la volgare strappona Sabrina Salerno (chissà come mai, diranno alcuni). Sostituite agli Smiths un altro gruppi italiano degli anni ’80, tipo i Diaframma o i Litfiba, e la contrapposizione viene preservata. Ma non oggi. La cosa che indispettirà molto i fan dell’indie italico, e che quindi già solo per questo ha buone probabilità di essere vera, è che sia la Marrone sia gli Stato Sociale di turno sono figli della stesso identico impulso, ovvero quello del buttarsi senza alcuna nozione del concetto di dignità personale. Non Emma nello specifico (perché qualche dote effettivamente spendibile nel contesto di riferimento, ovvero aspetto fisico e un certo rustico carisma, ce li ha pure), ma gli Stato Sociale sì, e questo porta ulteriormente acqua al mio mulino, che a questo punto è già sulle rive del Mississippi in piena. Emma è riuscita, almeno per ora, a sopravvivere al tritacarne dei reality canterini, e quindi rappresenta un caso di success story. Avevo già analizzato il realitame canterino e quindi non mi ripeto, semmai linko. In breve, comunque: sei disposto all’umiliazione in diretta nazionale? Ok, vieni qui che noi ci si tira su l’Auditel!

Sui gruppi indietalici e garrincheschi, la questione è in reatà similissima. Mettiamo che uno si metta a cincischiare con chitarre e computer e tiri fuori una serie di canzoncine mongolitiche che paiono un misto di 883, Lunapop ed musiche del Nintendo. Tipo Stato Sociale, per intendersi. La reazione sana comporterebbe l’autocritica, ammettere il proprio schifo e ripromettersi di smettere per sempre o in alternativa imparare prima un po’ di roba, perché non esiste che qualcuno possa apprezzare simile merda. Occhio che il paragone col punk è dietro l’angolo, ma io lo disinnesco subito. Perché il punk ’77 esplose e bruciò molto rapidamente. Riportò il rock alle sue pulsioni basilari in un periodo di elefantiasi avvitata su sè stessa. Tutti i gruppi del periodo che sono andati oltre la morte naturale della scena (che so, Damned, Stiff Little Fingers, Clash, Crass…) hanno in seguito corretto il tiro imparando a suonare e cambiando musica, se non spirito, nel proseguimento dell’attività. La stessa cosa successe con il molto più interessante scenario dell’hc americano degli anni ’80. E non sto dicendo che sia stato un bene o un male: il (salutare) suono ignorante e zozzo ma carico di energia e carica dissacrante si è sempre strutturato meglio per prendere altre direzioni. Una questione di autocoscienza. Invece, come il karaokista stonato e inguardabile decide di mettersi nelle mani dei vocal coach e di diventare una star facendo figure di merda in tv ogni settimana, allo stesso modo il musicista indietalico riesce a crearsi un giro nell’alternativame generico, sospinto dal passa parola e dall’interwebs e dal diabolico pubblico hipster a prova di tutto.

E qui si arriva al punto realmente delicato. Questo tipo di musica DI MERDA presuppone l’inesistenza del concetto di dignità personale, ma non ha fini come lo sfregio della morale (ormai obsoleto) o della “buona musica” (pure). No. Si inserisce nel micidiale circuito dell’Ironia 2.0 che rende impossibile qualunque critica. Anzi, una critica rafforza il circuito. Potrei passare ore a scrivere perché i Gazebo Penguins, i Cani, Marta Sui Tubi o Maria Antonietta fanno vomitare il culo ai gabbiani, ma “troppo tardi, lo sanno già, ahaha”, “chi se ne frega, loro lo sanno”, “non vanno presi sul serio, sono ironici”, fino al peggiore, “ormai che vuoi fare, le note sono sette, tutto è già stato detto”. Cioè, il fatto che gente faccia musica di merda che metta in musica quanto la musica è di merda con testi di merda sulla merda assolve automaticamente tutto con una scrollata di spalle. Posso non condividere, e infatti non lo condivido, il punto di vista di Kekko, ma è rispettabile e coerente, sempre che l’abbia capito bene: ovvero che la musica deve dirti qualcosa sulla tua vita, e farlo sinceramente, per meritare attenzione. E’ un leitmotiv ricorrente del suo blog e quindi immagino che per lui sia importante. Anche più della musica in sé, visto che secondo lui la validità di Gazebo Penguins o Stato Sociale discende da quanto siano in sintonia con l’esperienza di vita di un ventenne medio in Italia oggi. Io non la penso così, credo che la musica (ma potrei dire l’arte) sia finzione e che la verità in tal senso conti poco e niente, meglio una bella recita che una mediocre verità. Soprattutto, non ho alcun bisogno che un musicista “mi parli”. Sia io che il Kekko siamo grandissimi appassionati di Henry Rollins. “Ecco finalmente qualcuno che riesce a spiegare quello che sento ma non so dire. A un tratto mi pareva di conoscerlo da sempre.” Io non sono in grado di ragionare così. La musica di Henry Rollins mi piace di per sé e per l’immaginario che riesce a rappresentare. Non sentendomi inadeguato o alienato, o essendo troppo insensibile per sentirmici, mi godo le qualità estetiche della musica, la rappresentazione di questa inadeguatezza, ma senza immedesimazione. Per me va benissimo dipingere un’immaginario personale e renderlo vivo. La mia connessione diretta, provata sulla pelle, è irrilevante. Altrimenti è come dire che, non essendomi mai drogato, non dovrei amare i Monster Magnet. Cosa dice della mia vita, non so, Branford Marsalis? Credo ben poco, se non che mi piace la musica di Branford Marsalis. Dovrebbe esserci altro? No.

E dunque, sulla base di tutto lo sproloquio senza senso che è arrivato fino a Andy Warhol che regge il mantello di Miles Davis quando faceva dischi orribili, come chiudere? Che arrivati ad un certo punto, quando il fare schifo alla merda in maniera assoluta e totale diventa una cosa del tutto gratuita e fine a sé stessa, occorre impugnare il mitra e sparare ad alzo zero contro la marea di merdoni. E’ vero, ognuno fa quel che vuole e si esprime come gli pare. Ma rispetto molto di più chi vuole diventare una star e comprarsi il villone a Bel Air piuttosto che chi va in giro per i bar a rompere i coglioni con canzoncine di merda sull’esser stati mollati dalla tipa nell’intervallo pubblicitario di Don Mattero via Facebook nell’incertezza del precariato che tanto vale andare fare l’aperitivo coi soldi della borsa di studio in scienza della banana mentre si pensa a come la gente criticherà questa stessa canzone di merda che ripete un arpeggio di un pezzo dei Wilco ma solo alla seconda strofa e lo fa per strizzare l’occhio e lo dice pure il testo. No, basta, veramente, ci vuole un po’ di dignità, perché con l’indietalico il livello di infimaggine dei libri di Enrico Brizzi o dei film di Marco Ponti ha trovato una traduzione musicale accurata. L’unica arma, a questo punto, diventa ignorare il fenomeno, cosa che proprio in questo post del cavolo non ho fatto, ma insomma qualcosa dovevo pur scrivere.

Quindi, Emma Marrone vince. Fa musica commerciale, brutta e rompicazzo. Ma molto meno degli indiesfighi medi, e senza la rete di salvezza dell’Ironia 2.0 e della contrapposizione alternativo vs. commerciale che giustifichi le peggio aberrazioni in nome di sé stessa e del proprio ironico pubblico.

Margaret Thatcher fu primo ministro inglese dal ’79 al ’90, cioè da quando avevo tre anni fino alla terza media. Era una di quelle persone di cui sentivi parlare in tv fra un cartone e l’altro, fra un appuntamento wrestling e l’altro, fra una puntata di Colpo Grosso e l’altra, ma al pari di Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov sapevi che esisteva ma t’importava una valigia di cazzi. Negli anni il nome della Thatcher scomparve dei radar, o per lo meno dal mio, che già ho scarso interesse per il politicame corrente, figuriamoci per quello passato. Anche se, in realtà, fu grazie alle mie passioni per metal & punk che conobbi sul serio questa figura tanto discussa, così come quella di Reagan del resto: tantissimi gruppi si scagliavano, non certo senza ragioni, contro entrambi. Ieri viene data la notizia che la Thatcher è morta, e all’improvviso il mondo (= Facebook) si popola di status trionfali e livorosi – soprattutto da parte di tantissimi miei coetanei e connazionali, che non mi risultano figli di minatori inglesi, ma posso sbagliare. In ogni caso, sono quelle persone che considerano di cattivo gusto rallegrarsi per la levata dal cazzo di Osama Bin Laden, Chavez o chi per loro. Boh, valli a capire.

Tornando sul pezzo, appare evidente una cosa: le politiche Thatcher/Reaganiane sono alla base della crisi cominciata nel 2008. Non faccio una sparata, non è del resto una cosa per cui è necessaria chissà quale competenza economica con master ad Harvard e presidenza della Bocconi per affermarlo. I due politici in questione risposero alla crisi degli anni ’70 in maniera assai discutibile, cioè avviando la messa in pratica del turboliberismo sbroccante: tagliare le tasse ai ricchi e alle imprese, tagliare lo stato, liberare da lacci e lacciuoli burocratici l’economia aprendo al mercato ogni più piccolo anfratto, così gli imprenditori creano ricchezza e la Mano Invisibile porta tutto al miglior prezzo possibile per il cittadino comune. Com’è andata lo sappiamo: a partire dalla Mano Invisibile che NON ESISTE E NON FUNZIONA ED E’ UNA CAZZATA (a meno che voi non confutiate John Forbes Nash), passando per l’assalto ai sindacati per consentire agli imprenditori medesimi di ottimizzarei guadagni, e finendo con le varie delocalizzazioni in Merdistan assortiti. Negli anni ’90 c’è stata una pesante finaziarizzazione, c’è stato il (positivo) boom dell’interwebs, e col crollo dell’URSS e l’apertura dei mercati merdistanesi si pensava di poter campare di servizi facendo fare il lavoro duro ai negri sparsi per il mondo. Allo stesso tempo, la finanza con formule magiche ed equazioni differenziali di terzo ordine trovate nei capitoli più paurosi del Necronomicon ha prodotto bolle speculative sempre più grosse con emissioni di titoli tossici cui hanno partecipato banche e stati che poi hanno nuclearizzato foreste intere di danari e quindi la crisi la crisi. Tutte queste operazioni finanziarie chiaramente non sono forze naturali, la gravità o che so io: basta regolarle quel tanto che basta affinché i finanzieri possano comunque arricchirsi, ok, ma senza per questo causare enormi danni collaterali in termini di posti di lavoro e welfare devastati a giro per i cinque continenti. L’ideale sarebbe punirli pure penalmente, ma sarebbe già buono creargli una bella sandbox come nei videogiuochi.

Tuttavia, a vari livelli, regolare queste pratiche distruttive trova opposizione. Non solo da parte di finanzieri vari che si vedrebbero declassare da superultramega ricchi del tutto irresponsabili a semplici ricchi tassati in proporzione per contribuire al benessere e creare effettivamente lavoro/welfare/soncazzo, ma pure da gente normale che vede appunto nella Mano Invisibile il messia risolvi-problemi (riponendovi la stessa fede che hanno i comunisti per la Rivoluzione) e nel sistema del welfare un intollerabile sopruso per cui i negri si fanno mantenere da te con l’assegno di disoccupazione e intanto hanno il laboratorio di cristalli di metanfetamina per lo spaccio e quando scoppia e si ustionano ti tocca pure pagargli le spese mediche del dio cane. Si tratta, insomma, di una posizione religiosa del tutto analoga a quella comunista, con dogmi, santini (Reagan, la Thatcher, gli economisti Friedman e Von Hayek, la scrittrice Ayn Rand) e miti. Per circa trent’anni questa religione ha guadagnato terreno e si è fatta spazio. Ora la crisi del 2008 ha provato oltre ogni ragionevole dubbio che si tratta di cazzate termonucleari, esattamente come la caduta del Muro di Berlino ha messo sotto gli occhi di tutti che il comunismo fosse una massa di merda.

Quanto ci vorrà per rimettere le cose a posto non è dato saperlo, soprattutto in un paese come l’Italia che essenzialmente cerca di mantenere intatti equilibri secolari e oligarchie decrepite e fuori dal mondo, che con un minimo di concorrenza seria morirebbero come mosche (non che l’Italia sia comunlibertaria, è solo immobilista e poco propensa a collaborare sul serio a piani di riforma continentali, altrimenti Confindustria piange). E’ chiaro solo che la via comunista (TUTTO STATO! TUTTO STATO!) e quella libertaria (STATO LEGGERISSIMO! MANO INVISIBILE!) sono due religioni del cazzo e pretendere che siano scienza e soluzione ai problemi è, semplicemente, sintomo di deficienza. Le confutazioni ormai abbondano per entrambe le teorie, è il momento di scartarle una volta per tutte.

“Nel 1972, Richard Forthrast, fuggito nella Columbia Britannica per evitare rogne giudiziarie, lavora come guida da caccia specializzata, poi accumula una fortuna contrabbandando marijuana attraverso il confine tra Canada e Idaho. Passano gli anni, Richard torna negli Stati Uniti dopo l’amnistia concessa dal governo e investe la sua ricchezza in un vero e proprio impero. Crea anche T’Rain, un gioco di ruolo online di ambientazione fantasy con milioni di fan in tutto il mondo. Ma T’Rain è diverso dagli altri giochi del genere, perché l’oro virtuale che qui si scava e si conquista può essere trasformato in soldi nel mondo reale. Un gruppo di fanatici dell’informatica cerca di colpirlo creando Reamde, un virus che codifica tutti gli archivi elettronici e li conserva fino al pagamento di un riscatto. Si tratterebbe solo dell’ennesima truffa virtuale, se il virus non colpisse però le persone sbagliate: il ragazzo di Zula Forthrast, nipote di Richard, ha un passato da hacker, e ha appena concluso una transazione illegale vendendo dei numeri di carte di credito alla mafia russa. Quei dati sono stati resi inaccessibili da Reamde, perciò Zula e Peter vengono rapiti dai russi e portati nell’Estremo Oriente per aiutarli a rintracciare e colpire il fantomatico creatore di Reamde. Per la prima volta, il mondo virtuale rischia di scatenare una guerra senza esclusione di colpi: in palio c’è il destino del mondo reale.”

Questa la synossi italiana di Reamde, il nuovo, colossale libro di Neal Stephenson uscito e letto (da me) lo scorso anno. Si tratta di un’opera ciclopia, gigantesca, a tratti umoristica, a tratti delirante, assolutamente esplosiva e… beh, lasciate perdere questa aggettivazione idiota da parte mia, e partite dal presupposto che il buon Neal abbia fatto l’ennesimo centro che distrugge il bersaglio e lo pone più che mai nel novero degli scrittori realmente importanti di quest’epoca. Già, io lo sostengo da una vita e mezzo, ma il barbuto ragazzone di Fort Meade ce la mette tutta per confermare, libro dopo libro, quanto sarebbe meritato un riconoscimento pubblico della sua grandezza. Reamde contiene tutte le caratteristiche che rendono grande Stephenson: una storia di amplissimo respiro in cui brancolano personaggi improbabili che le provano di tutte per uscirne interi, con una fantozziana serie di coincidenze a unire mondi lontanissimi in una polveriera che, pagina dopo pagina, è sempre più pericolosa. La scrittura di Stephenson è, al solito, impareggiabile nel dettagliare un mondo dove natura e tecnologia si fondono senza alcuna soluzione di continuità: sa descrivere con verve, ritmo e naturalezza paradisi tropicali ricoperti di urbanizzazione incontrollata, strade ipertrafficate, ragnatele di cavi e tecnologia onnipervasiva così come se niente fosse, con un ritmo perfetto. Da tempo Stephenson ha fatto dell’infodump una forma d’arte a sè stante: addentrasi nel libro non è molto diverso da una bella navigazione internet, in cui flashback e dialoghi introducono e dettagliano argomenti dei più complessi e disparati per poi ritornare al normale flusso della narrazione. Un po’ come quando si clicca un link per approfondire e si trova una pagina bella quanto quella che leggevamo prima, ce la scorriamo tutta e siamo in grado di ritornare indietro arricchiti da informazione senza rumore di fondo. Non credo che il testo sia mai stato così vicino all’ipertesto, è probabile che mi dimentichi di qualche scrittore , e comunque pochissimi possono vantare una simile maestria. Neal tesse una trama complessa in cui si intersecano molte tematiche e molti sottotesti. Una volta stabilita ambientazione e personaggi, sembra quasi che faccia partire la simulazione lungo binari paralleli. Scrittori poco abili, o semplicemente meno abili, avrebbero fatto ricorso a pesanti deus ex machina per farli convergere. Stephenson si avvale del più semplice, realistico, ockamistico: l’errore, la sbadataggine, l’approssimazione, con le sue impreviste conseguenze che possono essere colte e fatte fruttare se si è particolarmente in gamba. Allo stesso tempo, sono molti i temi tipici di questo tempo che ribollono sotto la superficie: il terrorismo e l’intelligence, la Cina gigante dai piedi d’argilla, la compenetrazione fra mondo reale e virtuale anche oltre il predetto, l’enorme complessità tecnologica, culturale, economica che si agita dietro ad un MMORPG, il geeokdom e la diatriba sulla legittimità del “genere”, il reazionariato provinciale più profondo e pericoloso. E altro ancora: Stephenson maneggia tutto con disinvoltura e lo fa scivolare lungo la narrazione così, come se niente fosse. Sta al lettore soffermarsi a riflettere o lasciarsi trasportare dal turbine degli eventi. Il mondo è tutto interconnesso a portata di click, ogni singolo click può avere inavvertite conseguenze a chilometri di distanza, e poche cose come questo enorme affresco di thriller e azione a rotta di collo nel vecchio medium del libro possono farcelo capire, nei risvolti comici come in quelli drammatici.

      

Adesso, immaginatevi di girare, non so, per il Parco dei Mostri di Bomarzo. Vi aspettate, dietro una curva, di trovarci un qualche bestio pietrificato tipo quello che avete visto cento metri fa, e invece c’è un negro che gioca a Monopoli da solo tutto pensieroso. Ci restate per lo meno sbalestrati, no? Ecco, così mi sono sentito io quando ho saputo che Reamde era stato tradotto in italiano. Cioè, proprio non me l’aspettavo. La maniera in cui è stata realizzata la versione italiana è stata la molla per scrivere questo post, visto che sono secoli che non parlo di libri. Perché vedete, la Fanucci l’ha diviso in due libri, uno di 752 pagine e un altro di 704, venduti a 17.50 euri ciascuno, per un totale di 35 euri. Nel primo non c’è scritto assolutamente che si tratta di una prima parte. Il titolo sembra quello di un qualsiasi film di Steven Seagal. La copertina generica e sgommonissima. La traduzione non so. Sapete quanto vi costa, in inglese? Oggi c’è l’edizione cartonata, comprandolo da Amazon.com appena 12.51 più spedizione, e quindi ve lo ritrovate in casa spendendo meno della metà. Appena 7,50 dollari invece per l’edizione Kindle. Il succo della questione, insomma?

Beh, è presto detto: se siete di quelle persone a cui piace leggere, che ci si tuffano, amano stare dietro all’attualità letteraria e a sporcarvi le mani, prendendovi la briga di conoscere e valutare in prima persona senza l’imbeccata del quotidiano puzzone di turno, se insomma per parafrasare Quirino Principe siete “lettori forti”, dovreste fare un bel favore a voi stessi: abituatevi a leggere in inglese. Potrete disporre di una tavola imbandita 365 giorni l’anno a prezzi convenientissimi, e non vi farete più fregare da un panorama editoriale sempre più dilettantesco e scrauso che toglie dalla circolazione qualsiasi libro una volta esaurita la prima tiratura. Fatelo per voi stessi. Contribuirete pure alla percentuale degli “italiani che non leggono”, per il semplice fatto che non comprate nei soliti punti vendita. In realtà sarete troppo evoluti per cattive edizioni a prezzi da rapina, e vi rifornirete altrove. Certo, se tutti facessero così le bovere biggole libbbrerie fallirebbero. E allora? Lo faranno comunque, perché sono obsolete, è solo questione di tempo. Voi armatevi per fare a meno di loro e del pessimo sistema editoriale nostrano.

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