Category: musica


lemmylegend

Una volta, quando avevo dieci anni o giù di lì, trovai un manifesto impressionante ad accogliermi subito fuori dal catechismo. Rappresentava una specie di treno mostruoso, con una faccia da teschio demoniaco e due zanne gigantesche; sembrava correre ad alta velocità, quasi sul punto di deragliare. C’era scritto Motörhead, sopra: cosa voleva dire? Boh! Io e due miei amici (uno dei due oggi non c’è più – ciao Omar!) in particolare pensavamo fosse il cartellone di un film horror di prossima uscita e quindi eravamo tutti esaltati. Eravamo fissati coi film horror e facevamo anche un po’ a gara a chi ne aveva visti di peggiori, quindi iniziammo a inventarci cosa doveva essere questo film Motörhead, inventammo la storia del treno che porta i demoni dall’inferno, ricordo che lo disegnammo pure a fumetti, ne parlavamo, come se l’avessimo visto scena per scena, agli altri di classe nostra, che poi a loro volta replicavano con altri film inventati o le scene che avevano visto nella versione che ha visto il fratello più grande al cinema mio cuggino mio cuggino – insomma, tutti ci inventavamo tutto, era divertente. Musica pesa? Baffi a manubrio? Zero. In realtà mi sa che i Motörhead avrebbero suonato di lì a poco a Firenze per il tour di Orgasmatron, il disco del 1986, e quindi c’era il manifesto in città. Fine.

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Questa è la mia storiellina persona sui Motörhead. Non molto, però mi è rivenuta in mente all’improvviso, dopo essermene dimenticato per secoli, appena ho saputo della morte di Lemmy. Una morte che a voler vedere era ormai nell’aria – negli ultimi due anni la salute di questo pilastro del rock era andata deteriorandosi non poco, e nell’ultimo poi non ne parliamo. E nonostante ciò, era pure uscito un disco, Bad Magic, davvero bello – un degno, e a questo punto commovente, modo per uscire di scena. I Motörhead poi li ho scoperti ben dopo le elementari: si parla delle superiori all’inizio degli anni ’90, iniziazione alla musica pesa. Del pugno di primissimi gruppi che sentivo al tempo, i Motörhead sono rimasti ai vertici delle mie preferenze fino ad oggi. Ascoltarli negli anni ’90 aveva, almeno per me, un sapore particolare: erano considerati vetusti e fuori moda, le riviste ne parlavano quasi con fastidio. Eppure fecero un sacco di gran dischi in quel periodo. Ed è vero che i Motörhead hanno sempre tirato avanti per la loro via, fedeli al proprio stile, ma è anche vero che la qualità è stata mediamente molto alta e che nel tempo hanno creato via via piccole sorprese e nuovi archetipi sonori all’interno della propria discografia – in questo, si rivelò di importanza capitale l’album Sacrifice del 1995 e, più in generale, il ventaglio di possibilità aperto dall’arrivo di un batterista come Mikkey Dee.

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Lemmy. Era considerato un simbolo del metal, musica che però non gli è mai piaciuta – e non ha mai perso occasione per ribadirlo, senza per questo mancare di rispetto ai metal fan né ai musicisti che lo suonano (diversi dei quali sono pure stati suoi grandi amici). “Ci chiamano heavy metal per i capelli lunghi, ma noi somigliamo più ai Damned che ai Judas Priest”, disse una volta, ed è difficile dargli torto. La musica dei Motörhead, concisa, assordante e velocissima, rifiutava in maniera netta la magniloquenza dell’hard rock anni ’70. Lemmy, nel metter su la band, aveva come modello di riferimento gli MC5, il che non sorprende affatto – pure gli MC5, e prima ancora gruppi come Sonics, Monks etc, recuperavano l’urgenza primitiva del primo rock’n’roll per ridarle vita in anni di suoni levigati, megaproduzioni e arrangiamenti imponenti. La filosofia di Lemmy fu la stessa, ma l’esito diverso – è riuscito ad andare avanti per quarant’anni, live fast die old, ad altissimi livelli. Volume, velocità e violenza capaci di ispirare legioni di punk e metallari nei secoli dei secoli, un gusto melodico e armonico figlio diretto di Chuck Berry e Little Richard, una inconsueta capacità di infilare groove pure ad altissime velocità, e poi una mano fertile: il talento del Lemmy compositore è sottovalutato quanto quello del Lemmy paroliere, ambito in cui si dimostrava intelligente, arguto, cinico, spiritoso e sensibile. Sempre alla sua maniera, come del resto nel modo di suonare il basso e di cantare, con quella voce limitata e ruvida, ma straordinariamente vissuta ed espressiva.

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Si è molto parlato poi della questione politica, al solito in maniera idiota. Non starò a dire cosa non fosse Lemmy (annoverato fra i “loro”, recentemente, dai microcefali di Casapound, sì, quelli che reclamano come loro i Dropkick Murphys e si fanno picchiare e cacciare via a pedate dalla band stessa al concerto), ma dovessi sintetizzare, era un anarchico individualista, su posizioni non troppo diverse da quelli che animarono l’inizio della cultura dei biker negli anni ’50. Al tempo, gruppi di reduci dalla guerra di Corea, delusi dalle loro istituzioni al ritorno in patria, si chiamarono fuori dal consesso civile, organizzandosi in una società autonoma che viveva secondo un proprio codice etico ed estetico. Lemmy è andato avanti così, assumendosi sempre la responsabilità di errori e fallimenti, senza chiedere altro se non il diritto alla propria libertà personale. Non voleva ingraziarsi nessuno, ma era felice di essere apprezzato… se lo si apprezzava esattamente così com’era, alle sue condizioni. Quando si dice che è l’ultimo di una specie, un pezzo unico etc, è tutto vero. Non stiamo parlando di una figura banale, di un tossico miliardario istituzionale stile Keith Richards – Lemmy ha sempre lavorato durissimo, fra dischi e tour, fino all’ultimo. Anche negli ultimi anni, quando i Motörhead divennero all’improvviso rispettabili nel mondo del rock “che conta” e che li aveva sempre trattati come merda, non si è scomposto minimamente e ha continuato a fare esattamente come prima.

Addio, vecchio bucaniere. Mi mancherai da morire.

Musica: il meglio del 2015

L’anno volge al termine, dunque pare opportuno dare un’occhiata retrospettiva per sintetizzare le uscite più rilevanti. Come possiamo descrivere in un solo aggettivo questo 2015? In una parola, o meglio, in poche parole, si tratta dell’anno in cui la scena italiana, fertile più che mai, ha dimostrato una pluralità di visione e di intenti con pochi o punti pari in giro, perfettamente in grado di descrivere ed interpretare le tensioni dei giovani e dar loro una prospettiva che sia diversa dalla narrativa imposta dai media, fatta di apparenza e forche caudine della real-tv: soprattutto da quando il panorama musicale ha affiancato al solito Sanremo i vituperabili talent show, uno spettacolo da imbonitori che vanno avanti sfruttando il sadismo giudicante dello spettatore beota e la sua assoluta assenza di gusto e cultura musicale. La musica indipendente però è viva e lotta in mezzo a noi! Avanti dunque con la Top 5, scegliendo fra i gruppi o solisti in attività da meno di cinque anni (e quindi restringendo forzatamente il panorama, altrimenti ci sarebbe molto altro)!

I Finocchi Col Culo Degli Altri
“Sono Stato Spiegato Tardi”
Il sophomore del duo di Sinigallia conferma i pregi già espressi nel precedente Deltaplani a Pressione: piccoli bozzetti per voce e ghironda in cui suggestioni celtico-medievali e testi sulla fragilità di relazioni intessute nella chat di Facebook saldano nell’immaginario comune l’ansia di stabilità sentimentale ed economica per poter tirare un po’ di fiato e guardare Game Of Thrones in santa pace senza pensare al contratto che scade.

Kurt Kobane
“L’Amore Fra I Ranghi dell’YPG”
L’acclamato esordio di Saverio Scoppiacroste, in arte Kurt Kobane, ha preso un po’ tutti di sorpresa: un diciannovenne che, armato di chitarra acustica e GameBoy, cerca di offrire una via di fuga ai suoi coetanei che si sono laureati in massa in scienza della banana e ora trovano al massimo un posto di svuotatore di posacenere in nero. Toccante, fragile, tenero.

Le B-Sides dei 99 Posse
“Autentici Field Recordings Dalla Festa Dell’Unità di Faenza”
Più che band, una meta-band. Nelle canzoni di questo entusiasmante debut si ripercorre la storia, un po’ utopistica, un po’ ingenua, della musica italiana come sogno unificante della popolazione desiderosa di riscatto, prima che l’avvento del berlusconismo distruggesse ogni cosa sovvertendo la scala dei valori: i 18 minuti di Il Danaro E’ Molto Importante Per i Negri, costruita a partire da sample di Curre Curre Guagliò dei 99 Posse e Saltellare di Amadeus, che poi franano in una cantilena che ricorda una versione ironicamente rallentata di Boys Boys Boys di Sabrina Salerno, riflettono una condizione terminale. Da segnalare l’intervento spoken corale del collettivo WuMinghia nel momento più pregnante e lirico.

Una Disgustosa Istant-Band
“Je Suis Bataclan!”
A seguito dei tragici fatti parigini, la Phoetekkia Records ha organizzato una band estemporanea affidando il lavoro di direttori musicali ad alcuni autori top della scuderia (Lifo dei #Hashtagdimerda, Gionni degli Haters di Facebook e l’astro nascente Greppio X): l’obiettivo, cover destrutturate ed ironiche del repertorio degli Eagles Of Death Metal, a volte in chiave post- (Kiss The Devil strumentale, con la melodia affidata ad un synth Yamaha da quattro soldi), altre in chiave meta- (Save A Prayer che imita a volte l’originale versione dei Duran Duran, altre quella degli Eagles Of Death Metal, e in mezzo accenni testuali agli Eagles e ai Morbid Angel). Partecipano, ai vari strumenti e voci, tutti gli artisti dell’etichetta.

The Gianni Morandi Coprofagos
“Il Progresso Secondo Saruman”
I più punk del lotto, i The Gianni Morandi Coprofagos salgono sui palchi vestiti da Gianni Morandi e riescono a tirare fuori suoni impossibili dalle loro combinazioni di strumenti rock classici (chitarra e batteria) e Grillo Parlante Clementoni modificato per fare da filtro vocale per il cantante. Pezzi veloci e frizzanti in cui la riflessione sul capitalismo non lascia mai da parte uno sguardo ironico (più meta- che post-, soprattutto in Gordon Ramsey Mi Denunci Pure Per Plagio) si alternano a ballate da cameretta dai toni mesti e minimali, in cui l’interrogazione si sposta sulla dubbia importanza dei rapporti umani 2.0 (vedi Charlie Più Che Surf Fa Schifo).

Queste uscite rappresentano il meglio della grande scena indie italiana del 2015. Vi consigliamo di ascoltarli e capire cosa abbia la nostra vilipesa nazione da offrire oltre ai Kolors!!1111!!!

Qualche tempo fa surfavo YouTube per rivedermi alcuni filmati di Andrea Diprè, quando ad un certo punto l’occhio mi casca su un video dei related. Il video è Pettinero, di Il Pagante. “Ma che nome del cavolo è, Il Pagante? E Pettinero che vuol dire?”, è il nuovo martellante interrogativo, che posso soddisfare solo in un modo: cliccando al volo, ovviamente. E mi si materializza un universo. Uno trio di giovanissimi, quelli fotografati qui sopra, cioè Eddy Virus, Roberta e Federica, milanesissimi, che fanno canzoni da discoteca truzze e scazzone incentrate sulla figura del Pagante, ovvero il tipo di età 16-25 che vive per andare in discoteca il fine settimana, tira a campare a scuola, e spera sempre di entrare in pass, ovvero su qualche guest-list di qualche pr amico di amici che gli permetta così di risparmiare sull’ingresso e avere più soldi per sbocciare, ovvero spaccarsi vodka e superalcolici, ma pure qualche canna non guasta, e magari ci scappa pure un afterhour. Poi il lunedì ricomincia tutto da capo, in attesa del weekend. Tutto ciò su basi electro essenziali e testi in bilico fra celebrazione e presa per il culo dei paganti e del loro universo.

Guardando tutti i clip presenti, si nota la progressiva crescita del progetto. I primi clip, come Entro In Pass o Balza, sono fatti veramente con due lire, o meglio, con gli smartphone. Le canzoni sono molto più grezze e inciospolano fin troppo nei tormentoni, con rime che funzionano per il rotto della cuffia. Ma l’insieme risulta tanto casereccio quanto divertente. E’ con #Sbatti che le cose si fanno molto più professionali, sia nella canzone che nel video. Da lì avviene la crescita, basta confrontare i primi clip con Pettinero o l’ultimissima Faccio After. La diffusione virale dei video ha innescato un processo abbastanza ovvio: i tre ragazzi, chi fa le basi e chi gira i clip hanno deciso di fare le cose più seriamente, complice anche la crescita tecnica. Gli ultimissimi due video potrebbero far parte della programmazione di MTV, ormai. Ci sono pure due ospiti, ovvero il solito Diprè e uno dei Club Dogo. E poi c’è una cosa che mi diverte un sacco: il momento in solitario di Roberta (la ragazza più alta), che getta merda su tutto quello che era stato edificato dal video fino a quel momento, col nonsense del Monclair o con le rime sull’inconcludenza del Pagante. Un giuoco fra amici che si è, insomma, trasformato in qualcosa di più, visto che Il Pagante fa tour lunghissimi in giro per le discoteche italiane.

E’ chiaro come il sole che Il Pagante ha tutto quello che serve per scatenare l’odio di qualsiasi Oplita del Bene nel raggio di 1000km. Ma se ci si riflette, sono l’unica cosa veramente messa di traverso nell’ambito della paralitica musica italiana, che gravita tutta attorno all’imminente Festival di Sanremo. Già, il Festival, l’evento in cui, per una settimana il mondo dei vivi e quello dei morti coesistono. Dove si fanno sempre infinite polemiche sui fiori, le vallette, le presentatrici, il presentatore, gli ospiti, i valori. Dove vecchie glorie hanno l’unica chance annuale di farsi sentire e, anche in caso di vittoria, di sparire subito dopo. Dove nuovi eroi possono vincere ed essere dimenticati subito. Dove gli eroi dell’Italia alternativa hanno l’unica occasione di recuperare popolarità quando il loro pubblico ormai li ha sfanculati.

E Il Pagante, in tutto ciò? Il Pagante, cari i miei fanzi della musica indiependente diqualità, sono l’unica indipendenza che ci sia. Sono, da qualsiasi punto di vista, incompatibili con Sanremo. Le loro canzoni parlano di deboscio alcolico e fancazzismo dall’ottica del mantenuto perdigiorno, sono casiniste e moleste. Non possono andare a Sanremo ora, non ci potranno andare in futuro, nemmeno ad accompagnare in duetto la Berté (o Bertè). Sarebbero fuori luogo quanto gli Slayer o la prima di un concerto per oboe di William Bolcom. Ma non si può dire la stessa cosa di Brunori SAS, Pierpiero Capovilla e Vasco Brondi, quando saranno disperati che nessuno li caga di striscio e vorranno portare MUSICA DIVERSA a Sanremo scompaginando l’asse nostalgia-buoni sentimenti con LA QUALITA’ CHE NON PREMIA perché non si può impostare un discorso sulla qualità in Italia porcoddio, però magari si pigliano il premio della critica e potranno lucidarlo e rimirarlo tutti viscidi e chini protettivamente su di esso a mo’ di Gollum. Loro sì, finiranno a Sanremo ben felici. Il Pagante, no. Il Pagante è alternabbestia e un bel dito nell’occhio al culturame bollito e snob, quello che di sicuro li accusa di degrado e corruzione dei giovani, o di rappresentare il degrado di questo paese, quindi qua dentro sono i benvenuti. Arrendetevi, indiesfiga, che loro sono molto più indie di voi. Oltre che più bravi, vabbeh, ma quello pure io.

Concerto del Primo Maggio però fico

Oggi è una giornata di festa, di divertimento, di musica dal vivo. Certo, i concerti del Primo Maggio qui da noi sono un po’ una gran rottura di scatole e abbinano retorica a musica di infimo livello (peraltro, di anno in anno, sempre la stessa). Noi ci vogliamo distinguere proponendovi Karl Denson e i Tiny Universe, jazz funkoso e corroborante, contro il logorio dei Modena City Ramblers di turno. Trovatevi un’ora e mezzo, magari attaccando il vostro cellulare allo stereo di casa degli amici da cui state facendo la grigliata…

Anteprima: il disco dell’anno!

Ormai lo saprete tutti, Papa Francesco è sulla copertina del nuovo numero di Rolling Stone. E non dell’edizione nostrana che conta come la merda in culo ai licaoni, ma su quella americana, cioè quella madre. Roba forte, mica cazzi. E infatti la copertina dice the times they are a-changin’, come cantava proprio quel Bob Dylan che negli anni ’60 fu grande protagonista della musica e della cultura (nonché di Rolling Stone medesima, che muoveva i primi passi) e che più di recente si è convertito al cattolicesimo. Coincidenza? Io non credo!!!11! Questo è un simbolico passaggio di consegne, perché solo Papa Francesco può guidare l’umanità in quest’epoca difficile e confusa. E un papa come lui, così giovanile nei modi, non può farlo che con la musica. Infatti, Papa Francesco ha fatto il disco che salverà la musica rock da sè stessa e allo stesso tempo farà giungere un messaggio di speranza ai giovani, che sono il futuro, eccheccazzo. Un miracolo? Beh, in tal caso, nessuno è più intitolato del Papa a farne, quindi zitti e non rompete la coglia. Adesso però è tempo di esclusive, perché qui facciamo gli scemi, ma non siamo mica tonti: il Papa ha tenuto una conferenza stampa al Viper Room di Los Angeles in cui ha fatto ascoltare alla stampa musicale di tutto il mondo il contenuto del suo disco, I Tuoi Peccati Sono Grandi?, che è stato registrato in ben tre lingue: italiano, per la nazione che lo ospita, spagnolo, per il suo continente d’origine, e inglese per il mondo intero.

Papa Francesco è produttore esecutivo, mentre di promozione e distribuzione si occuperà una major di cui ancora non sappiamo il nome. Chi l’avrebbe mai detto, eh? E se la sorpresa è grande, lo sarà ancor di più sapere che Papa Francesco non si è limitato: oltre a cantare e suonare chitarra e organo, ha pure scritto e arrangiato l’intero album, scegliendo personalmente i musicisti più adatti al singolo brano. Un lavoro imponente che ridona dignità alla musica di massa, oggi più che mai vilipesa da un’assenza di valori  (musicali e non) a dir poco preoccupante. I Tuoi Peccati… è un lavoro ambizioso che unisce diverse anime. Rock, soul, hip-hop, musical e improvvisazione convivono in un affresco che è ben maggiore della somma delle parti e riscopre l’atto politico del fare musica in un modo così forte e necessario che mancava dai tempi di Bob Dylan, appunto. Non stupisce che Bob Dylan stesso duetti col pontefice in Trappola Di Cristallo. Sarebbero molti i brani da segnalare, ma ci limitiamo ad un’escursione rapida, anche perché per accordi firmati alla conferenza stessa, recensioni e compagnia possono uscire solo dal primo aprile. Segnaliamo, per es. la splendida intro Cani, Maiali e Negri, un’improvvisazione per organo  basata “su tre nuclei tematici che amo molto (il tema principale dalle Lamentazioni di Alberto Ginastera, Come Sunday di Duke Ellington, Skeletons Of Society degli Slayer) e che in qualche modo alludono al Sacro, alla presenza di qualcos’altro oltre il sensibile”, l’affascinante Hai Visto?,  che rielabora il sound di George Clinton, del trip-hop e del kraut-rock unendolo al gamelan giavanese e al minimalismo di Steve Reich, con un meraviglioso ritornello da classifica cantato da Adele, e Il Prezzo, suite di diciotto minuti che costituisce il centro narrativo ed emozionale del disco, in cui il Papa si lancia in appassionanti duelli chitarristici con John Petrucci, Frank Gambale, Joe Satriani, Steve Vai e Bobby Stopponcelli.

Rock, donne, diavolo? Il Papa ridefinisce tutti questi concetti! Il rock è salvo! Perché se tutti questi concetti, una volta messi assieme alla bene e meglio e contrastati vigorosamente dalla morale cattolica, trovano una trattazione non convenzionale da parte del Papa, vuol dire solo una cosa: la rivoluzione è alle porte, un altro mondo è possibile, e chi dice il contrario è un negro.

A differenza di molti coccodrillatori odierni, io credo di poter parlare di Lou Reed con una certa cognizione di causa. Non perché mi piacciano i Velvet Underground (cosa vera), non perché i suoi dischi da solista mi lascino indifferente (cosa altrettanto vera), ma perché a differenza del 99,9% di voi che state leggendo io Lou Reed l’ho conosciuto per davvero. Ma non per una cosa trita. So fare anch’io a fare il giornalista musicale e bullarmi dell’aver incontrato questo o quello, e infatti l’ho fatto molte volte, ma un conto è incontrare uno perché gli devi fare un’intervista, un conto entrarci in confidenza in maniera del tutto naturale. E io tra l’altro nemmeno l’ho mai intervistato, Lou Reed. Però, cosa che non tutti sanno, a Lou Reed piaceva molto venire in Italia, e affittava spesso una casa a Viareggio sopra la farmacia di mia zia. Lou era, per la zia e i suoi collaboratori, “l’americano” o “quel tipo buffo di New York”. Nessuno di loro aveva gran dimestichezza col rock, sapevano assai di Lou Reed, che veniva a Viareggio proprio per questo motivo: poteva fare quel che voleva, nessuno gli fracassava il cazzo, e quei pochi che lo riconoscevano pensavano che fosse solo un tizio che gli assomigliava molto. Non io: capii subito che era lui, e un giorno mi feci avanti, gli chiesi se era davvero Lou Reed, che mi piaceva la sua musica etc. Era molto divertito: un teenager che lo riconosce e gli fa domande, quando al massimo si aspettava le rock-giaculatorie di qualche vecchio trombone che aaaaah i bei tempi, e che schifo oggi, e non ci sono più gli artisti seri come te etc etc. Lou Reed, negli anni, l’ho sempre incontrato e salutato, ci siamo spesso beccati alla Boutique del Cocomero a parlare di musica e stronzate varie quando veniva d’estate, e ho saputo ogni sua mossa musicale con largo anticipo. A volte persino in anteprima, anche in versione non definitiva. La cosa più interessante, però, era fargli conoscere musica nuova. La sua immagine pubblica di super snob che se ne frega era anche una posa, perché in realtà bastava stimolare la sua curiosità. E così gli feci sentire, e apprezzare, roba come Pantera, Tool, Prong, Metal Church, Monster Magnet, Turbonegro, Entombed, Fear Factory, Rollins Band. Tutta roba dura e pesa di cui si sentiva in parte responsabile, perché in fin dei conti fu lui a incidere Metal Machine Music (“per prendermi gioco dei tromboni della stampa, che risate, li ho babbati tutti!”) e a far apprezzate roba pesa e ignorante allaUAHAHAHAHAHAHAHAHAH COGLIONI SCOMMETTO CHE CI AVETE CREDUTO AHAHAHAHA TESTE DI CAZZO AAHHAHAHAHAAH AHAHAHAHA STRONZI FANCULO AHAHAHAHAHAHAHH!

Qualche tempo fa l’orrendo Giovanni Allevi ha fatto l’ennesima sparata delle sue, che Beethoven non ha ritmo, Jovanotti sì, è per questo che i bambini apprezzano il secondo e non il primo, ecco musica classica sbroc sbroc vecchia rinnovamento sbroc sbroc. Allevi ha (consapevolmente, ne sono sicuro) sparato una megacazzata totale termonuclare totalmente sbagliata su qualsiasi livello, ma che riattiva la dialettica delle tifoserie pro/contro, portando al solito il nome del merda al centro dei riflettori. Cosa che è successa, ma meno del previsto, sarà perché la gente s’è un po’ stufata, sarà perché qualche anno fa Uto Ughi ha aperto la breccia istituzionale dell’anti-Allevamento, sarà perché boh. Sulla centesima sparata dell’acaro ascolano c’è poco da dire. Tanto per iniziare, il confronto fra musica accademica europea e musica pop italiana nata quasi duecento anni dopo da tutt’altri presupposti è, semplicemente, insensato e folle – il modo stesso di pensare e concepire ritmo e percussione, nonché il nostro modo di sentirli, è irrimediabilmente cambiato con il cambiare della musica e l’irruzione della musica (afro)americana (di cui Jovanotti è deforme discendente). E già solo questo taglierebbe la testa al toro. Poi, c’è l’aspetto puramente retorico, di contrapposizione alto-vs-basso. La solita roba trita e meschina per cui Allevi per tramite di Jovanotti che gasa la gente sarebbe anche lui stesso più meglio di Beethoven che garba ai parrucconi che osteggiano Allevi e dunque pure Jovanotti. Zac. Allevi avrebbe potuto citare l’Histoire Du Soldat di Stravinsky o Rodeo di Aaron Copland per dar corpo ad un’affermazione tipo “la musica contemporanea è più vicina all’orecchio medio moderno rispetto a quella di Beethoven, almeno per quanto riguarda l’aspetto ritmico e percussivo”? Certo, ma una frase del genere avrebbe contraddetto brutalmente il nocciolo del suo misero pensierino, cioè che TUTTA la musica accademica dell’ultimo secolo sia rumore incomprensibile che non piace a nessuno tranne a chi la compone e qualche professorone spocchioso. Insomma, si sarebbe sparato in culo da solo, dando per scontata la memoria a medio termine del pubblico.

Prendo questo esempio di Allevi non solo per parlar male di Allevi, che è sempre cosa buona e giusta, ma perché mi rendo conto che ormai nessuno vuol più rimettere al suo posto l’imbecille. In generale, dico. Dev’essere una distorsione del concetto di “democrazia”, quella per cui la libertà è discorporata dalla responsabilità. E’ vero, ovviamente, che ognuno può dire e pensare quello che vuole; allo stesso tempo, se dici una stronzata, può succedere che qualcuno si alzi e dica “ma sei mongoloide, dio cane?” Sì, pure in pubblico, e sì, pure se sei una celebrità. Credo sia questo, alla fine, il grosso danno culturale dell’ultimo quarantennio o giù di lì, l’eredità peggiore del ’68 che si è legata in maniera inestricabile e perniciosa al politicamente corretto. Un bel continuum di merdismo, lasciatemi dire. Se le proteste del ’68 erano contro l’aumento delle tasse universitarie, che avrebbero tagliato fuori le fasce meno danarose, e dunque sacrosante, gli esiti nel lungo termine sono stati distorti in modo catastrofico: hanno prodotto la situazione del tutti laureati, nessuno laureato. Ovvero, quella del “mi laureo per il pezzo di carta e faccio il concorso”. Ovvero dell’ingigantimento a dismisura del pubblico. Ovvero della lauree facilitate e squalificate, quando non totalmente mongole. A monte, quel modello di educazione in cui il figliuolo non viene mai redarguito col ceffone o messo di fronte alle cazzate che ha combinato, ma blandito per “evitare traumi”. Non è colpa tua che non studi e/o non capisci un cazzo, sono gli altri che non ti apprezzano. Questo modo di ragionare solletica molto il narcisismo medio e prende piede molto rapidamente; i risultati costituiscono il cosiddetto “sfascio culturale contemporaneo”, cui si è arrivati procedendo un passo alla volta nella direzione sbagliata. Nel’idea lodevole di permettere a tutti, indipendentemente dal censo, di laurearsi, ad un certo punto si è perso per strada il “a patto di studiare il necessario”, che coincideva pure con la parte sgradevole dell’affare: il politicame è andato fin troppo incontro a quel che la gente voleva. Per forza che poi arrivano i parlamentari analfabeti e le trasmissioni condotte da gorilla che non sanno parlare italiano (ma pure certi dottorandi all’università, giuro).

Non so bene cosa aggiungere, a questo punto. Non sono certo per Il Modello Di Virtù che tutti devono seguire, nè per l’acritica adorazione del proprio orticello. Non sono per gli estremi e le verità rivelate, preferisco gli equilibri ragionevoli. E una situazione di ragionevole equilibrio sarebbe quella in cui uno che fa solo dei modesti plìn plìn al piano spacciandosi per grande della musica contemporanea, facendo leva sul fatto che (purtroppo) la musica contemporanea in Italia è paurosamente negletta e l’educazione musicale vetusta, e sui relativi complessi che germinano in questa situazione, venisse rimesso a posto a suon di schiaffoni. Le argomentazioni per farlo non sono affatto difficili, eppure si preferisce l’alzata di spalle e “ognuno ha diritto alla sua opinione”, oppure “alla gente piace”: due frasi fatte che sono vere, ma che annullano ogni possibilità di argomentazione. E qui si arriva all’altro punto, l’anti-intellettualismo-perché-sì, che è pernicioso e dannoso quanto l’intellettualismo-perché-sì. E’ la morte completa di qualsiasi spirito critico e discussione. Oh lo so, ci sono cascato pure io qualche volta, per la mediocrità degli intellettuali italiani e l’insopportabile supponenza delle teste d’orango che pendono dalle loro labbra, incapaci di formarsi uno spirito critico e un’estetica individuali. Ma bisognerebbe anche fermarsi quando ci si rende conto di aver oltrepassato la soglia dell’onestà. Ieri sera, per dire, mi sono guardato DOA: Dead Or Alive, che è una sgommata di film termonucleare. Divertentissimo, lo riguarderei pure domani. Ma è brutto e fallimentare da qualsiasi punto di vista. A me Truffaut non piace, eh, ma indubbiamente è uno che ha il suo perché e il suo percome e cinematograficamente parlando vince a mani basse su DOA, indipendentemente dal fatto che io, dovendo scegliere, preferisca guardarmi quest’ultimo. Se confrontassi Truffaut con John McTiernan, allora ecco due autori diversissimi, ok, ma capaci di guardarsi negli occhi sul piano della riuscita estetica del proprio lavoro.

Il succo. Eh, il succo quale sarà, a questo punto, che mi sono perso & rotto i coglioni… Che gli esseri umani sono tutti uguali, nel senso che hanno tutti diritto alle stesse cose, e però sono tutti diversi, nel senso che non tutti sono capaci di fare le stesse cose. Quando il sistema educativo è arrivato, passo dopo a negare la seconda parte della congiunzione, dando ad ogni testa di cazzo la sensazione di essere unico e speciale e chi dice il contrario ti sta discriminando, ecco, quando succede ci scappa il FAIL. Uscirne sarà graduale quanto lo è stato entrarci, sempre che lo si voglia fare. E no, questo non è uno sbotto vecchiarile per cui ora mi metto a pontificare stile Castaldo/Assante che gli Slayer sono inutili perché tanto i Beatles avevano già detto tutto con Helter Skelter o fregnacce simili. E’ solo un tentativo di fare chiarezza su argomenti, in qualche modo, già trattati prima. Perché allo spettatore di X-Factor convinto di vedere nuovi talenti contrapposti a quella troja di Miley Cyrus, occorre ricordare che se Miley Cyrus non sarà Janelle Monae, è comunque una cantante sulla cresta da anni che fa concerti su concerti, balla, canta e vende dischi. Ha già dimostrato di essere superiore alla media. Capito, coglioni? Ora vi rimetto a posto a zoccolate.

Se c’è una cosa davvero strana, ai limiti dell’incomprensibile, è la smodata passione per i Queen che caratterizza moltissimi metallari italiani. I Queen sono un gruppo di enorme popolarità, uno dei più amati al mondo e quindi potrebbe essere lecito aspettarsi un alto numero di Queen-fan pure fra i kid di casa nostra. Eppure i Queen incarnano meglio di chiunque altro tutto ciò che i metallari solitamente detestano, cioè il gruppo più fumo che arrosto, ruffianissimo e sempre pronto a seguire le mode del momento. Sono fatti evidenti a chiunque non abbia occhi e orecchie foderate di biroldo e magari non faccia parte dell’isterico fandom della Regina, eppure molti metallari negano. Non solo: pur essendo solitamente fieri delle conquiste del metal (e a ragione), li vedrete spesso chinare la testa e genuflettersi di fronte alle filastrocche di Mercury e compagnia, che sono così belle che mamma mia (rima)! Del resto pure chi scrive, una volta, apprezzava un sacco i Queen, assieme ad altra robaccia come le produzioni anni ’80 di Sting, Elton John, Rod Stewart, Joe Cocker e altra merda analoga. Nell’estate della terza media (1990) mi prestarono una cassetta registrata dei Queen, con svariati hit degli anni ’80 più qualcosina dei ’70 (di sicuro “We Are The Champions”, “We Will Rock You” e “Bohemian Rhapsody”, forse “Somebody To Love” ma non ci giurerei). Wow, mi parevano davvero troppo superfighi, ma davvero una roba mai sentita. Poi l’anno successivo arriva il metal, e accade che qualsiasi band del nuovo genere appena scoperto suonasse, alle mie orecchie, molto meglio dei Queen, anche se inizialmente magari non me lo volevo ammettere. Poi muore Mercury, grande commozione, aumento smisurato del bimbaminkismo queeniano etc etc, io comunque alla fine avevo da stare dietro al metal, che mi piaceva davvero molto di più. E per forza, vuoi mettere “1916”, “Painkiller”, “Vulgar Display Of Power”, “Badmotorfinger”, “Pump”, “Reign In Blood”, “Somewhere In Time” o “Arise” con “Innuendo”? Durante gli anni non sono mai tornato sui miei passi, anzi, più aumentava la mia conoscenza del rock in generale più i Queen perdevano terreno. Qui però finisce l’excursus biografico-nostalgico, bisogna tornare sul pezzo.

Possiamo prendere la prima fase dei Queen, quella glam-hard, come la più genuina e interessante. Soprattutto in “II”, un album di rock epico ed eccessivo, come se Marc Bolan avesse deciso di suonare con gli Uriah Heep o viceversa, con in più lo spirito della farsa cabarettistica. In quell’album funzionava tutto: i Queen erano maestosi, ma non si prendevano sul serio – pur flirtando con l’orrenda piaga del rock sinfonico, ne tenevano a bada i peggiori eccessi… con l’eccesso di ridicolo. I loro marchi di fabbrica, cioè un certosino lavoro di sovraincisione in studio, essenziale per ottenere i famosi cori da operetta esplosivi come una sezione di fiati e la tediosa chitarra “sinfonica” di Brian May, una teatralità da music-hall che a volte deraglia nel montaggio di demenziali sketch sonori (come definire altrimenti “Ogre Battle”?) e arrangiamenti barocchi erano già ben presenti, l’ispirazione al picco. I dischi immediatamente successivi sono organizzati proprio come spettacoli di music-hall, ogni canzone è un “numero” differente in cui cambia lo stile ma non lo spirito: ritornelli orecchiabili come filastrocche o ninnenanee, cantati con tutti i vezzi di una Marie Loyd e gran dispiego di arrangiamenti elaborati. In questo senso va interpretato l’apparente eclettismo dei Queen: è come se avessero imparato diversi stili di musica da un’enciclopedia per usarli poi tipo attrezzi di scena. Oppure possiamo pensare ai Queen come ai cicisbei del rock, con tanto di parrucca, cipria e pomata, un fluente eloquio e in testa un sacco di nozioni apprese dal retrocopertina dei libri; quanto basta per intrattenere una dama con galanterie e buone maniere durante una serata mondana.
La barca regge fino a “A Day At The Races” compreso, sebbene ogni nuovo album mostri già un numero di riempitivi maggiore del precedente.  A partire da “News Of The World” comincia un processo di normalizzazione che appiattisce la band su un generico sound rock-pop, appena un po’ più affettato e magniloquente della media, in perfetta sincronia con l’estinzione del glam e la crisi dell’hard rock. Il music-hall (tratto distintivo e cifra stilistica originale dei Queen) viene sostituito da un eclettismo facilone e vanesio che si traduce in flirt col gospel (“Somebody To Love”), il r’n’r di Elvis (“Crazy Little Thing Called Love”), le atmosfere da crooner (“My Melancholy Blues”), il recupero dell’hard rock (“Sheer Heart Attack”), il funky (“Another One Bites The Dust”) e in un progressivo inserimento di synth e tastiere, nel vano tentativo di ritrovare l’ispirazione. Nel 1982 “Hot Space” tenta addirittura di saltare sul carrozzone della disco music con appena sei o sette anni di ritardo e a denti strettissimi pure i fan ammettono che non sia esattamente questa bellezza.
Nella seconda metà degli anni ’80 i Queen pubblicano album banalissimi e trascurabili, ma di enorme successo, allineati al pop deluxe del periodo. Solo il timbro di Mercury e il solito gusto melodrammatico li distinguono dal resto della musica da classifica: i Queen sono perfettamente a loro agio con Wham, Culture Club, Tears For Fears, Simply Red etc, tutti gruppi a cui si accodano in termini di suono, produzione e arrangiamento. Il percorso dei criticatissimi Metallica, al paragone, è lineare quanto quello di AC/DC o Iron Maiden. E dunque, come spiegare tutto l’affetto dei metallari italiani per una band che, numeri alla mano, dovrebbe incarnare ai loro occhi tutto ciò che odiano nel music biz? Ci viene in soccorso l’età, perché la Queen-sindrome colpisce soprattutto i metallari dai trentacinque anni in giù, soggiogati in età teenageriale dal mito post mortem di Freddie Mercury. Un grande cantante e showman nonché grandissimo edonista (e qui mi levo il cappello), desideroso di piacere e di intrattenere il suo pubblico che in cambio gli permetteva di fare una sacrosanta bella vita in fantastiche ville a South Kensington. Un nobile fine comprensibile e condivisibile, che però non dovrebbe redimere dozzine di canzoni orrende.
Bah, valli a capire i metalz.

(Post apparso, originariamente, qui. Lo riciclo per pigrizia e per linkare un blog metal diverso dal solito cui partecipo time permitting Frank Sinatra e chi coglie la citazione è un genio.)

“Ma secondo te, Rob, quello lì sarà mica un queenfag?”

I Queen non mi piacciono manco per il cazzo, e non è un mistero per nessuno. Ma peggio ancora sono i loro fan. Molesti e insopportabili come i fan hardcore dei Queen ci sono solo quelli di Beatles, Manowar, Iron Maiden e Dream Theater. Porca troia, è gente che ti fa davvero odiare gruppi di cui alla fine t’importa una, giusto? Insomma, per attirare un po’ di queenfag e visite, pubblico questo test ispirato all’opera del sommo maestro CrotaloAlbino. Test after the jump!

Sei un queenfag? Rispondi onestamente alle domande che seguono.

Sei in un locale quando, ad un certo punto, dalle casse parte “The Show Must Go On”. Un tizio di un tavolo vicino dice “che palle ‘sta lagna!”. Tu:

a) Frega cazzi.
b) In effetti ha un po’ rotto i coglioni.
c) Vado dal tizio e gli faccio una piazzata. Come osa? E’ un ignorante, uno stolto, uno che proprio l’arte, anzi, l’Arte e la Mvsica non sa nemmeno dove stiano di casa. Quella è più di una canzone, è il Testamento di Fredddie! E lui osa sminuirla così? Ignorante! Stronzo! Testa di cazzo!

Chi ha inventato il gospel?

a) Boh, Whoopi Goldberg?
b) Il percorso che ha portato al gospel è lungo, tuttavia possiamo indicare Thomas Dorsey come l’autore che diede a questa musica la forma definitiva.
c) Sono stati i Queen con “Somebody To Love”, dall’album “A Day At The Races”. Perché, c’era forse qualche cazzo di dubbio a riguardo? EH? RISPONDI, FORZA!

Dopo il Freddie Mercury Tribute, John Deacon si è ritirato a vita privata. Che ne pensi?

a) Ah, non me n’ero accorto, tanto non è che pure prima si notasse molto.
b) Una scelta molto dignitosa, lo rispetto.
c) Premesso che ogni membro dei Queen è UNICO e INSOSTITUIBILE, John ha fatto quello che riteneva meglio per sè stesso e per i Queen, dunque tu non hai alcun diritto di rompergli i coglioni con le tue domande del cazzo, capito, stronzo?

Chi ha inventato la disco music?

a) Donna Summer? O Diana Ross? Insomma, la più figa delle due.
b) Posso sbagliare, ma credo che il passaggio dal funky alla disco si possa attribuire a “One Night Affair” di Jerry Butler.
c) Sono stati i Queen con “Back Chat”, dall’album “Hot Space”. Perché, c’era forse qualche cazzo di dubbio a riguardo? EH? RISPONDI, FORZA!

Conosci cantanti in grando di coprire agevolmente tre ottave?

a) Dicevano in tv che quel tizio lì, Adam Lambert, fa della roba del genere, quindi lui.
b) Penso a Rob Halford, Stevie Wonder, Meat Loaf, Prince…
c) Freddie Mercury! FREDDIE MERCURY! SOLO LUI, in tutta la storia della musica, ha mai coperto una simile estensione vocale! Tutti gli altri cantanti devono essergli grati, se è stata scoperta la terza ottava! Altro che criticare!

Chi ha inventato il rock’n’roll stile Elvis o Bill Haley?

a) Elvis o Bill Haley, mi sa.
b) Elvis o Bill Haley.
c) Sono stati i Queen con “Crazy Little Thing Called Love”, dall’album “The Game”. Perché, c’era forse qualche cazzo di dubbio a riguardo? EH? RISPONDI, FORZA!

Cosa ne pensi del disco di Freddie Mercury “Barcelona”?

a) Per due o tre minuti ti fa scassare il culo dal ridere, poi però rompe i coglioni. Comunque, per evitare fraintendimenti, è proprio una merda.
b) Mi vergogno per Mercury. Come si fa a concepire una simile stronzata?
c) E’ un capolavoro. Di più. E’ la più geniale e originale fusione di rock e opera mai scritta. E’ una pagina creativa ed epica che mette insieme le due più grandi voci di tutti i tempi, Freddie e come si chiama, quella lì, Monserrà Trallallà.

Che ne pensi di Justin Bieber?

a) Uno che a sedici anni è già stramiliardario e gli basta schioccare le dita per trovarsi fichette arrapate pronte a farselo conficcare nello sgombraminestre non può che avere tutta la mia approvazione. Respect!
b) Un fenomeno pop come tanti altri. Non mi interessa, ma se alla gente piace, per me è ok.
c) Justin Bieber, anzi, Biberon, ahahahahaa, dicevo, lui, è una merda, è il segno della decadenza del mondo, perché una volta c’erano i Queen e adesso la gente ascolta questo nano maledetto e non capisce più un cazzo, veramente, che schifo. I fan dei Queen si dissociano da Justin Bieber e da tutto quello che rappresenta. Tra poco facciamo pure la petizione e la pagina Facebook.

Chi ha inventato il rock duro?

a) Non me ne importa una merda, so solo che se sei meno duro degli Slayer non ti cago.
b) Tutto considerato, possiamo prendere “Vincebus Eruptum” dei Blue Cheer come punto di partenza.
c) Sono stati i Queen con “Stone Cold Crazy”, dall’album “Sheer Heart Attack”. Perché, c’era forse qualche cazzo di dubbio a riguardo? EH? RISPONDI, FORZA!

Ti dà fastidio che un componente di un gruppo sia gay?

a) No.
b) No.
c) Cosa hai detto? Ho sentito bene? Gay? Allora cominciamo subito con le offese? Dillo, brutto stronzo omofobo di merda, che odi i Queen perché Mercury era omosessuale, dillo! Ora ti gonfio di botte! Prima però te lo butto in culo con la sabbia, brutto finocchio volgare e violento!

Come valuteresti l’eclettismo dei Queen?

a) Tanti modi diversi per far cagare il cazzo ai cammelli sempre e comunque.
b) Attenzione alla moda del momento. Questo non toglie che abbiano pure fatto qualche buon pezzo/disco.
c) Semplice: genio. Genio distillato. I Queen hanno praticamente inventato la musica moderna. Tutta. Non c’è genere che non abbiano inventato, e tutti i gruppi venuti dopo di loro ne sono stati influenzati, in ogni genere e nazionalità. I Queen SONO LA MUSICA, lo vuoi capire, coglione ignorante?

Chi è il tuo preferito, fra i musicisti rock o pop storici, e perché?

a) Franco Califano. Mi piacciono i signori di mondo un po’ raffinati e un po’ cafoni.
b) I Grateful Dead. Musicisti sublimi, improvvisatori senza pari, capaci di partire dal folk e trasportarlo nello spazio e tornare indietro come se niente fosse.
c) I Queen, che discorsi. Sono i migliori, capito? MI-GLIO-RI! Lo dicono tutti i sondaggi, Mercury è il miglior cantante con tre ottave di sempre, Brian May è un chitarrista troppo ganzo, quegli altri due già solo perché ci hanno suonato insieme sono i meglio altrimenti non sarebbero stati scelti, e poi hanno venduto tredici stramiliardi di cazzigliai di copie, quindi come cazzo fate a dire di no? Tornate a sentirvi Garetsful Desd che tanto non li conosce nessuno, o Justin Bieber! Ah! Confessa, ti piace Justin Bieber, si vede lontano un miglio!

Chi ha inventato il videoclip?

a) Ma m’importa anche una bella sega! Comunque Paolo Limiti faceva vedere pure videoclip di Gianni Morandi negli anni ’60, quindi…
b) I primi filmati promozionali a colori risalgono agli anni ’60: Dorelli, Gaber, Paoli, Equipe 84… cioè, perfino in Italia!
c) Sono stati i Queen con “Bohemian Rhapsody”, dall’album “A Night At The Opera”. Perché, c’era forse qualche cazzo di dubbio a riguardo? EH? RISPONDI, FORZA!

Risultati:

Maggioranza di risposte “a“: non sei un queenfag.

Maggioranza di risposte “b“: neppure tu.

Maggioranza di risposte “c“: cazzo, sei proprio un queenfag. I Queen per te sono proprio la più incredibile e incontestabile e inderogabile e inammissibile e invincibile band mai prodotta dai tempi in cui qualcuno s’è inventato l’onda sonora. E se qualcuno contesta, è certamente una merda. Non sia mai che tu conosca solo i Queen, oppure che tu sia rimasto fulminato da loro quando avevi quattordici anni e la tua forma mentis, da allora, non si sia mai evoluta. Vabbeh, in fondo è una betoniera di cazzi tuoi.

Eh, in effetti è un bel po’ che qui dentro non si parla di dischi della metalz. E’ che ne scrivo un fracco altrove, quindi replicare non c’avevo voglia. O meglio, non ce l’ho avuta per un pezzo. Ora invece toh, già che ci sono, qualche roba sentita di fresco in uscita ora o uscita da poco. Così, tanto per. Uno, due, tre, via.

Megadeth – Super Collider
Una vera e propria merda totale. Se i vari United Abominatons e Endgame erano thrash riciclato e spento per compiacere i fan, e facevano cagare iguana, questo magari è hard rock melodico tinto di Megadeth che piace a Mustaine veramente. Ciò non toglie che faccia altrettanto pena, perché questo tipo di cose ai Megadeth non riesce affatto – ne avevamo avuto già prova con Cryptic Writings e Risk, di cui Super Collider è la versione aggiornata. Unico pezzo decente Dancing In The Rain, che ricorda un po’ certe cose cupe e tese di Youthanasia (tipo Reckoning Day o Black Curtains), e Kingmaker che non avrebbe stonato fra le b-side di Countodwn To Extinction. Ah, la cover di Cold Sweat dei Thin Lizzy è una merda.

Black Sabbath -13
I vegliardi un po’ rincorbelliti devono avere quest’idea che la qualità equivalga alla quantità. O, in altre parole, i Black Sabbath come gli Iron Maiden allungano canzoncine, già di per sè banalissime e trite, portandole da quattro minuti a otto-nove con la ripetizione di riff inoffensivi, nella speranza forse di ricreare un po’ di atmosfera antica. Che non c’è: ‘stammmerda di disco è una spenta accozzaglia di clichè (pezzo stile Black Sabbath? C’è. Pezzo stile Planet Caravan? C’è. E così via) che, se fosse stato inciso da un qualsiasi gruppuscolo di giovincelli di Cardiff che escono su Rise Above sarebbe stato dimenticato in tempo zero. Siccome c’è scritto “Black Sabbath” sopra grideranno tutti al capolavoro. Ozzy canta in maniera ignobile, e deve benedire l’autotune probabilmente.

Queenrysche – s/t
Fare peggio di Geoff Tate o del precedente Dedicated To Chaos era davvero difficile, infatti hanno fatto meglio. Niente di miracolevole, ma un album piacevole sì – un chiaro ritorno alla forma piu’ metallica, potrei dire un ipotetico anello mancante fra The Warning e Empire, tutto condensato iun circa trentacinque minuti. Ottima mossa, alla fine dei conti, perché gli ha permesso di sintetizzare il meglio. La Torre e’ davvero bravo, pare un Geoff Tate d’annata leggermente piu’ ‘tallo e halfordesco nei momenti più acuti e aggressivi. Con tutto, continuo a trovare migliore American Soldier.

Valient Thorr – Our Own Masters
Alla grande! Hanno semplicemente affinato il loro stile fatto di metal punk frenetico, rockarollaro e assurdamente divertente, Valient Himself è più istrionico e fuori di testa che mai. In un paio di canzoni affiorano melodie davvero sorprendenti che ricordano gli Husker Du (!), in un altro paio di canzoni le chitarre pigliano un suono blues à la JJ Cale, c’e’ un pezzo compressissimo sparatissimo che è quasi la riduzione hc totale del loro sound. Ma insomma, è uno spettacolo totale.

Clutch – Earth Rocker
Anche loro, arrivati al decimo disco, non hanno ancora sbagliato un cazzo. Earth Rocker è forse il loro disco più diretto e lineare, che può davvero piacere a tutti. In primo piano sempre la solita vociona roca di Neil Fallon (a metà strada fra Tom Waits e un cantante soul) col suo spirito predicatorio e i ritmi zeppi di funk e groove negrissimi, ma stavolta sparati piu’ dritti. Ritornelli spettacolari a presa rapida e grande varieta’ di atmosfere (sempre restando nei dintorni di un hard rock molto sanguigno) dovrebbero, in un mondo piu’ giusto, consegnargli definitivamente le chiavi di stadi e classifiche.

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