Una volta, quando avevo dieci anni o giù di lì, trovai un manifesto impressionante ad accogliermi subito fuori dal catechismo. Rappresentava una specie di treno mostruoso, con una faccia da teschio demoniaco e due zanne gigantesche; sembrava correre ad alta velocità, quasi sul punto di deragliare. C’era scritto Motörhead, sopra: cosa voleva dire? Boh! Io e due miei amici (uno dei due oggi non c’è più – ciao Omar!) in particolare pensavamo fosse il cartellone di un film horror di prossima uscita e quindi eravamo tutti esaltati. Eravamo fissati coi film horror e facevamo anche un po’ a gara a chi ne aveva visti di peggiori, quindi iniziammo a inventarci cosa doveva essere questo film Motörhead, inventammo la storia del treno che porta i demoni dall’inferno, ricordo che lo disegnammo pure a fumetti, ne parlavamo, come se l’avessimo visto scena per scena, agli altri di classe nostra, che poi a loro volta replicavano con altri film inventati o le scene che avevano visto nella versione che ha visto il fratello più grande al cinema mio cuggino mio cuggino – insomma, tutti ci inventavamo tutto, era divertente. Musica pesa? Baffi a manubrio? Zero. In realtà mi sa che i Motörhead avrebbero suonato di lì a poco a Firenze per il tour di Orgasmatron, il disco del 1986, e quindi c’era il manifesto in città. Fine.
Questa è la mia storiellina persona sui Motörhead. Non molto, però mi è rivenuta in mente all’improvviso, dopo essermene dimenticato per secoli, appena ho saputo della morte di Lemmy. Una morte che a voler vedere era ormai nell’aria – negli ultimi due anni la salute di questo pilastro del rock era andata deteriorandosi non poco, e nell’ultimo poi non ne parliamo. E nonostante ciò, era pure uscito un disco, Bad Magic, davvero bello – un degno, e a questo punto commovente, modo per uscire di scena. I Motörhead poi li ho scoperti ben dopo le elementari: si parla delle superiori all’inizio degli anni ’90, iniziazione alla musica pesa. Del pugno di primissimi gruppi che sentivo al tempo, i Motörhead sono rimasti ai vertici delle mie preferenze fino ad oggi. Ascoltarli negli anni ’90 aveva, almeno per me, un sapore particolare: erano considerati vetusti e fuori moda, le riviste ne parlavano quasi con fastidio. Eppure fecero un sacco di gran dischi in quel periodo. Ed è vero che i Motörhead hanno sempre tirato avanti per la loro via, fedeli al proprio stile, ma è anche vero che la qualità è stata mediamente molto alta e che nel tempo hanno creato via via piccole sorprese e nuovi archetipi sonori all’interno della propria discografia – in questo, si rivelò di importanza capitale l’album Sacrifice del 1995 e, più in generale, il ventaglio di possibilità aperto dall’arrivo di un batterista come Mikkey Dee.
Lemmy. Era considerato un simbolo del metal, musica che però non gli è mai piaciuta – e non ha mai perso occasione per ribadirlo, senza per questo mancare di rispetto ai metal fan né ai musicisti che lo suonano (diversi dei quali sono pure stati suoi grandi amici). “Ci chiamano heavy metal per i capelli lunghi, ma noi somigliamo più ai Damned che ai Judas Priest”, disse una volta, ed è difficile dargli torto. La musica dei Motörhead, concisa, assordante e velocissima, rifiutava in maniera netta la magniloquenza dell’hard rock anni ’70. Lemmy, nel metter su la band, aveva come modello di riferimento gli MC5, il che non sorprende affatto – pure gli MC5, e prima ancora gruppi come Sonics, Monks etc, recuperavano l’urgenza primitiva del primo rock’n’roll per ridarle vita in anni di suoni levigati, megaproduzioni e arrangiamenti imponenti. La filosofia di Lemmy fu la stessa, ma l’esito diverso – è riuscito ad andare avanti per quarant’anni, live fast die old, ad altissimi livelli. Volume, velocità e violenza capaci di ispirare legioni di punk e metallari nei secoli dei secoli, un gusto melodico e armonico figlio diretto di Chuck Berry e Little Richard, una inconsueta capacità di infilare groove pure ad altissime velocità, e poi una mano fertile: il talento del Lemmy compositore è sottovalutato quanto quello del Lemmy paroliere, ambito in cui si dimostrava intelligente, arguto, cinico, spiritoso e sensibile. Sempre alla sua maniera, come del resto nel modo di suonare il basso e di cantare, con quella voce limitata e ruvida, ma straordinariamente vissuta ed espressiva.
Si è molto parlato poi della questione politica, al solito in maniera idiota. Non starò a dire cosa non fosse Lemmy (annoverato fra i “loro”, recentemente, dai microcefali di Casapound, sì, quelli che reclamano come loro i Dropkick Murphys e si fanno picchiare e cacciare via a pedate dalla band stessa al concerto), ma dovessi sintetizzare, era un anarchico individualista, su posizioni non troppo diverse da quelli che animarono l’inizio della cultura dei biker negli anni ’50. Al tempo, gruppi di reduci dalla guerra di Corea, delusi dalle loro istituzioni al ritorno in patria, si chiamarono fuori dal consesso civile, organizzandosi in una società autonoma che viveva secondo un proprio codice etico ed estetico. Lemmy è andato avanti così, assumendosi sempre la responsabilità di errori e fallimenti, senza chiedere altro se non il diritto alla propria libertà personale. Non voleva ingraziarsi nessuno, ma era felice di essere apprezzato… se lo si apprezzava esattamente così com’era, alle sue condizioni. Quando si dice che è l’ultimo di una specie, un pezzo unico etc, è tutto vero. Non stiamo parlando di una figura banale, di un tossico miliardario istituzionale stile Keith Richards – Lemmy ha sempre lavorato durissimo, fra dischi e tour, fino all’ultimo. Anche negli ultimi anni, quando i Motörhead divennero all’improvviso rispettabili nel mondo del rock “che conta” e che li aveva sempre trattati come merda, non si è scomposto minimamente e ha continuato a fare esattamente come prima.
Addio, vecchio bucaniere. Mi mancherai da morire.