Category: gente ganza


gm

L’immagine di cui sopra non l’ho inventata io, l’ho solo ricreata ex novo per l’impossibilità di ritrovare l’originale, perso in qualche meandro dell’interwebbo irraggiungibile da Google. Oppure mi sono stufato troppo presto di cercare. Non sono sicurissimo, ma credo fosse un parto della mente acuminata del buon Tommaso Labranca, altro scomparso del 2016, sebbene meno noto di George Michael o di Carrie Fisher, giusto per citare gli ultimi due. Riguardo a questa cosa delle morti, onestamente, io capisco emotivamente come ci si senta per la perdita di personaggi pubblici che apprezziamo, amiamo, ci ispirano etc. E quelli che “eh ma ci sono cose più importanti…” vanno presi a roncolate nel coccige, non ci piove. Quest’anno mi è dispiaciuto un casinissimo per il grande Prince, per dire, e pure il molto più defilato e infaticabile contrabbassista Bob Cranshaw. Che aveva 84 anni, tra l’altro, quindi nemmeno stupisce troppo, come pure Leonard Cohen, ottantenne o giù di lì. Altri, tipo Prince, Michael o la Fisher, no, sono morti fra i 50 e i 60. Ed essendo, chi più chi meno, persone che hanno avuto i loro eccessi, come tante altre celebrità, il loro fisico era minato e più suscettibile. Questo per dire che nei prossimi anni vedremo sempre più personalità del mondo dello spettacolo andarsene, in particolare quelle nate fra gli anni ’40 e gli anni ’60 – un intero ventennio, quello dei miti (con merito, con usurpazione, non importa) ancora in attività. Sarà forse il caso di mettere da parte nostalgie varie e iniziare a scoprire i talenti di oggi? Io lo faccio da anni e non me ne pento, altri preferiscono piagnucolare tenendosi stretta la loro sedicesima copia deluxe limited quadrisound 3.0 di Dark Side Of The Moon.

Detto questo, mi dispiace per George Michael, per carità: era giovane e come tutti i personaggi giudicati immorali etc mi stava simpatico – anche per come affrontò la questione dell’omosessualità (pochi avrebbero marciato sopra ad uno scandalo facendo un pezzo/video divertente come Outside). Però la sua musica mi ha sempre fatto cacare, e la sua voce, “l’unica ke poteva cantare i Quinz!11!”, due palle. Eppure ora son tutti suoi fanzi e ne chiederanno la beatificazione. Carrie Fisher invece era in pratica una di famiglia, come per tutti i fan di Guerre Stellari. Il dispiacere in questo caso è molto maggiore, anche perché la Fisher purtroppo è rimasta schiava di quel ruolo, come un po’ tutti gli attori della trilogia originale escluso Harrison Ford. Il personaggio di Leia era quello di una donna risoluta e sveglia, ben lontana dalla principessa che attende di essere salvata dall’eroe e si attiene poi alle decisioni di quest’ultimo. Appare naturale che nei due nuovi, bellissimi film della serie vi siano al centro donne in gamba, dalla simpaticissima Rey alla scorbutica Jin. La cosa che mi fa più ridere? Gente che vede nella trilogia originale un’esaltazione dei ruoli cristiani e della civiltà bianca e tradizionale, in opposizione a quelli nuovi infettati dal gender. Chiederei, a questi coglioni, se hanno mai prestato attenzione al personaggio di Leia. Probabilmente, il fatto che fosse Principessa bastava a inquadrarla in un certo modo e a ignorare i fatti. Vabbeh.

E buon anno, perché non so se riscrivo di qui al 31. Anzi, col cazzo proprio.

lemmylegend

Una volta, quando avevo dieci anni o giù di lì, trovai un manifesto impressionante ad accogliermi subito fuori dal catechismo. Rappresentava una specie di treno mostruoso, con una faccia da teschio demoniaco e due zanne gigantesche; sembrava correre ad alta velocità, quasi sul punto di deragliare. C’era scritto Motörhead, sopra: cosa voleva dire? Boh! Io e due miei amici (uno dei due oggi non c’è più – ciao Omar!) in particolare pensavamo fosse il cartellone di un film horror di prossima uscita e quindi eravamo tutti esaltati. Eravamo fissati coi film horror e facevamo anche un po’ a gara a chi ne aveva visti di peggiori, quindi iniziammo a inventarci cosa doveva essere questo film Motörhead, inventammo la storia del treno che porta i demoni dall’inferno, ricordo che lo disegnammo pure a fumetti, ne parlavamo, come se l’avessimo visto scena per scena, agli altri di classe nostra, che poi a loro volta replicavano con altri film inventati o le scene che avevano visto nella versione che ha visto il fratello più grande al cinema mio cuggino mio cuggino – insomma, tutti ci inventavamo tutto, era divertente. Musica pesa? Baffi a manubrio? Zero. In realtà mi sa che i Motörhead avrebbero suonato di lì a poco a Firenze per il tour di Orgasmatron, il disco del 1986, e quindi c’era il manifesto in città. Fine.

orgasmatron

Questa è la mia storiellina persona sui Motörhead. Non molto, però mi è rivenuta in mente all’improvviso, dopo essermene dimenticato per secoli, appena ho saputo della morte di Lemmy. Una morte che a voler vedere era ormai nell’aria – negli ultimi due anni la salute di questo pilastro del rock era andata deteriorandosi non poco, e nell’ultimo poi non ne parliamo. E nonostante ciò, era pure uscito un disco, Bad Magic, davvero bello – un degno, e a questo punto commovente, modo per uscire di scena. I Motörhead poi li ho scoperti ben dopo le elementari: si parla delle superiori all’inizio degli anni ’90, iniziazione alla musica pesa. Del pugno di primissimi gruppi che sentivo al tempo, i Motörhead sono rimasti ai vertici delle mie preferenze fino ad oggi. Ascoltarli negli anni ’90 aveva, almeno per me, un sapore particolare: erano considerati vetusti e fuori moda, le riviste ne parlavano quasi con fastidio. Eppure fecero un sacco di gran dischi in quel periodo. Ed è vero che i Motörhead hanno sempre tirato avanti per la loro via, fedeli al proprio stile, ma è anche vero che la qualità è stata mediamente molto alta e che nel tempo hanno creato via via piccole sorprese e nuovi archetipi sonori all’interno della propria discografia – in questo, si rivelò di importanza capitale l’album Sacrifice del 1995 e, più in generale, il ventaglio di possibilità aperto dall’arrivo di un batterista come Mikkey Dee.

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Lemmy. Era considerato un simbolo del metal, musica che però non gli è mai piaciuta – e non ha mai perso occasione per ribadirlo, senza per questo mancare di rispetto ai metal fan né ai musicisti che lo suonano (diversi dei quali sono pure stati suoi grandi amici). “Ci chiamano heavy metal per i capelli lunghi, ma noi somigliamo più ai Damned che ai Judas Priest”, disse una volta, ed è difficile dargli torto. La musica dei Motörhead, concisa, assordante e velocissima, rifiutava in maniera netta la magniloquenza dell’hard rock anni ’70. Lemmy, nel metter su la band, aveva come modello di riferimento gli MC5, il che non sorprende affatto – pure gli MC5, e prima ancora gruppi come Sonics, Monks etc, recuperavano l’urgenza primitiva del primo rock’n’roll per ridarle vita in anni di suoni levigati, megaproduzioni e arrangiamenti imponenti. La filosofia di Lemmy fu la stessa, ma l’esito diverso – è riuscito ad andare avanti per quarant’anni, live fast die old, ad altissimi livelli. Volume, velocità e violenza capaci di ispirare legioni di punk e metallari nei secoli dei secoli, un gusto melodico e armonico figlio diretto di Chuck Berry e Little Richard, una inconsueta capacità di infilare groove pure ad altissime velocità, e poi una mano fertile: il talento del Lemmy compositore è sottovalutato quanto quello del Lemmy paroliere, ambito in cui si dimostrava intelligente, arguto, cinico, spiritoso e sensibile. Sempre alla sua maniera, come del resto nel modo di suonare il basso e di cantare, con quella voce limitata e ruvida, ma straordinariamente vissuta ed espressiva.

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Si è molto parlato poi della questione politica, al solito in maniera idiota. Non starò a dire cosa non fosse Lemmy (annoverato fra i “loro”, recentemente, dai microcefali di Casapound, sì, quelli che reclamano come loro i Dropkick Murphys e si fanno picchiare e cacciare via a pedate dalla band stessa al concerto), ma dovessi sintetizzare, era un anarchico individualista, su posizioni non troppo diverse da quelli che animarono l’inizio della cultura dei biker negli anni ’50. Al tempo, gruppi di reduci dalla guerra di Corea, delusi dalle loro istituzioni al ritorno in patria, si chiamarono fuori dal consesso civile, organizzandosi in una società autonoma che viveva secondo un proprio codice etico ed estetico. Lemmy è andato avanti così, assumendosi sempre la responsabilità di errori e fallimenti, senza chiedere altro se non il diritto alla propria libertà personale. Non voleva ingraziarsi nessuno, ma era felice di essere apprezzato… se lo si apprezzava esattamente così com’era, alle sue condizioni. Quando si dice che è l’ultimo di una specie, un pezzo unico etc, è tutto vero. Non stiamo parlando di una figura banale, di un tossico miliardario istituzionale stile Keith Richards – Lemmy ha sempre lavorato durissimo, fra dischi e tour, fino all’ultimo. Anche negli ultimi anni, quando i Motörhead divennero all’improvviso rispettabili nel mondo del rock “che conta” e che li aveva sempre trattati come merda, non si è scomposto minimamente e ha continuato a fare esattamente come prima.

Addio, vecchio bucaniere. Mi mancherai da morire.

La notizia è di qualche giorno fa: James Hetfield, voce, chitarra e principale compositore (assieme a Lars Ulrich) dei Metallica, avrebbe prestato la sua voce, stavolta in qualità di narratore, per The Hunt – un documentario sulla caccia all’orso Kodiak (fonte). La cosa non dovrebbe essere molto sorprendente, sono almento vent’anni che è nota la passione di Hetfield per la caccia. Ovviamente, però, non è così, e nel clima di caccia alla streghe che investe chiunque schiacci almeno tre zanzare al giorno, Hetfield si è trovato subito mezza interwebs addosso: assassino, merdone, boycott Metallica, non li ascolto più, omo di merda e tutto il repertorio medio de’ mongoloidi. Lui non si è granché scomposto, il suo silenzio dev’essere una sorta di andate a fare in culo molto educato, nonché doveroso. Tra l’altro la gente è proprio deficiente perché la caccia al Kodiak è regolamentata in maniera rigidissima, non è che Hetfield vada in giro con un cacciabombardiere napalmizzando l’intera isola di Kodiak. Wiki alla mano:

“Kodiak bear research and habitat protection is done cooperatively by the Alaska Department of Fish and Game and Kodiak National Wildlife Refuge. Bear hunting is managed by the Alaska Department of Fish and Game and hunting regulations are established by the Alaska Board of Game. There is currently a finely-tuned management system that distributes hunters in 32 different areas during two seasons (spring: April 1 – May 15, and fall: October 25 – November 30). Each year about 4,500 people apply for the 496 permits offered for Kodiak bear hunts (two-thirds to Alaska residents, one-third to nonresidents). Nonresidents are required to hire a registered guide who is authorized to hunt in a particular area, and this can cost from $10,000–$22,000. All hunters must come into the Alaska Department of Fish and Game (ADF&G) office in Kodiak prior to going into the field for a brief orientation and must check out before they leave the island. Every bear that is legally killed on the Archipelago must be inspected by an Alaska Department of Fish and Game wildlife biologist before it can be taken from the islands.[29] Pelts receive a stamp from an ADF&G officer if the hunter and guide provide proper documentation to prove licensing. Pelts can not be transported or legally preserved or sold without the official stamp. Hunting laws are strictly enforced by both the ADF&G officers who often have the full support of the local community. Illegal hunting and fishing is frowned upon by the community which maintains a healthy respect for the island’s environmental laws as well. Stiff penalties accompany illegal hunting and fishing. The island’s remote location makes trafficking in illegal pelts difficult for would-be poachers.”

Insomma, le cose sono chiare. Hetfield ama cacciare e farà da voce narrante ad un documentario sulla caccia al Kodiak – il che non significa nemmeno che lo vedremo cacciare quegli orsi, come molti già immaginano. Le cose non potevano comunque finire così, non nell’era del petizionismo un tanto al chilo. Perché i Metallica suoneranno al festival di Glastonbury, saranno gli headliner della serata di sabato (quella più piena di gente) e la data sarà parte del “Metallica by Request” tour, con la scaletta decisa dai fan. Il concerto si terrà il 29 giugno, il contratto band-promoter sarà stato firmato un anno prima almeno, è già tutto esaurito, e il festival attira qualcosa come 180.000 persone. Cosa si inventano allora le genti, pur di mettere in risalto la propria molesta mongoloidità? Una bella petizione online! Mettiamo pure che arrivi alle 20000 firme (c’è il countdown): cosa faranno i promoter di Glastonbury, che certo avranno già versato un poderoso anticipo ai Metallica, a venti giorni dall’evento e con una marea di persone che ha smosso mari e monti per essere lì nel weekend? Questi idioti credono davvero di essere ascoltati? Povere teste di bomba!

Naturalmente una deficientata attira l’altra, e i Mogwai si sono messi a dire che ehi, ci toccherà suonare insieme a quel gruppo di merda dei Metallica con quel batterista del minchia. Lars Ulrich, per una volta, è stato signorile, dicendo, “ma chi sono ‘sti qui?”. Ora, i Metallica sono una delle rock band più seguite e acclamate del globo. Ormai non riescono più a fare una canzone per il verso, figuriamoci un disco, ma il loro status di leggenda se lo sono guadagnato e se lo tengono. E dal vivo fanno sempre spettacoloni. Se la critica fosse venuta da possibili, aggeurritissimi pretendenti al trono (che so, Slipknot o Lamb Of God), poteva essere una cosa. Dai dei tizi squallidi che probabilmente hanno pure firmato la petizione contro i Metallica perché Hetfield cacc… ehi, magari hanno iniziato proprio i Mogwai! Chi li ha mai visti insieme?!?!?!?!?!?!??

Insomma, w la caccia al Kodiak, w i Metallica, fanculo ai boycott e ai Mogwai. La prossima volta voglio un bel tour Metallica + Ted Nugent.

Elvirator

Al solito, non è nelle nostra tradizzzzzioni, i’ Ddemogno, Elvira, etc etc. Quindi qui Halloween è fico e andate a fare in culo. Purtroppo su YouTube non si trova Elvira Mistress Of The Dark, ma solo il film del 2001, quindi lo posto uguale che magari lo guardate e vi divertite un pochino, ché siete un po’ grigi e tristi.

La buriana su Miley Cyrus è passata, o almeno si è parecchio ridotta di intensità, e a me nel frattempo è tornata mezza voglia di scrivere qualcosa quindi ne approfitto perché ora o mai più. Sulla questione in sè, in realtà, da dire c’è poco: si incolpa violentemente Miley Cyrus di essersi evoluta da modello per sorelline a trojona, seguendo l’arco audio-video dell’esibizione agli MTV Awards fino al singolo Wrecking Ball. Roba già vista, un due minuti d’odio perfettamente esaminato sulla Colonia Lunare, a cui vi rimando. Il turbine di minchiaggine ha raggiunto forza dieci: strali d’ogni tipo, ma forse è emancipazione attraverso il porno, anzi female empowerment, ma che zoccola, che bottana, che tutto. Si è pure gettata nella mischia l’insopportabile Sinead O’Connor, che non aveva un cazzo da dire vent’anni fa e quindi figuriamoci ora, con una tirata moralista trita e ritrita (la potete leggere qua o là). Molto più centrata e di buon senso, invece, Amanda Palmer, che ha scritto una lettera aperta a Sinead, e quindi indirettamente a Miley. Sinteticamente, Amanda dice: ok, l’immagine, la strategia comunicativa, il quel-che-l’è di Miley Cyrus sfrutta la sessualità femminile compiacente nel modo più trito e scontato, ok, ma Miley Cyrus non avrà la libertà di gestire la sua carriera e la sua vita come stracazzo vuole? Centro.

Perché il presupposto della tirata anti-Miley è sempre il solito, cioè che Miley sia stata forzata, ipnotizzata, costretta da uomini d’affari senza scrupoli a fare quello che fa, mentre fosse per lei sarebbe una cantantina dolce e carina che vuole ispirare qualche valore alla nostra sorellina (mi è toccato leggere pure cose simili e non mi sto inventando un cazzo). Ora, la trasformazione da Disney-girl in bad-girl non è esattamente roba dell’altro ieri, visto che era già avvenuta abbondantemente tre anni fa con Can’t Be Tamed. L’esibizione con Robin Thicke agli Awards è stata pensata per dare scandalo, pigiando quei famosi tasti che funzionano sempre, e quindi è una scelta deliberata. Se proprio la devo criticare, posso dire che il ballo in sè faceva schifo. Miley deve ballare meglio, poi oh, alla fine chissene. Era l’unica cosa criticabile per davvero. Ed è roba arcinota che Miley Cyrus abbia deciso di fare quel che ha fatto di sua volontà. E’ ovvio, dal momento stesso che Miley Cyrus è entrata nello star-system giovanissima dalla porta principale (la Disney) ed è riuscita a restare sull’onda quando l’età l’ha costretta al cambio d’immagine. Per atterrare in piedi dopo un cambio radicale e un passaggio ad un nuovo pubblico è necessario un ferreo controllo su di sè, oltre ad un ottimo team di contorno, ed è chiaro che la Cyrus abbia avuto entrambe le cose. Che la Cyrus sia perfettamente lucida e in gamba, del resto, lo potete vedere chiaramente nello show di Jimmy Kimmel (parte 1, parte 2).

A questo punto, il problema si sposta nel più trito dei processi alle intenzioni. O qualcosa che ci si avvicina ma che non ho voglia di definire. Certe, anzi, troppe persone danno per scontato che una Ragazzina si metta a cantare per diventare una Grande Artista, ma poi si sia imbattuta in qualche Serpente Tentatore che l’abbia sedotta e corrotta, portandola al meretricio mediatico per vil danaro; va da sè che, una volta spremuto lo spremibile dalla Ragazzina, quest’ultima sarà abbandonata al suo destino e sostituita rapidamente. Il discorso “spremuto lo spremibile” è spesso vero. Ma non è accettabile la premessa: si sa come va il business ad alti livelli, dipende tutto da cosa vuoi ottenere. Miley Cyrus, Rihanna, Shakira, Beyoncè etc. hanno coltivato la loro carriera come performer, più che come artiste: la loro realizzazione è quella della showgirl che canta, balla, dà una rappresentazione su di un palco, fa vivere uno spettacolo audiovisivo insomma. E’ la dimensione gigantesca dello spettacolo ad alto livello, che richiede determinazione e applicazione, in tal senso, notevolissime: non a caso, riesce a Miley Cyrus, ma non a vostra cugina Antonella che al massimo fa la cubista il fine settimana.

Possiamo approvare, o meno, la scelta dell’ex stellina Disney, ma non certo mettere in dubbio che lei abbia scelto le sue mosse in piena coscienza per arrivare ai suoi obiettivi. Come diceva Amanda Palmer, la libertà di scelta c’è. E anche se la scelta personalmente non ci piace, l’unica cosa davvero importante è che una giovane donna come Miley Cyrus possa esercitare questa libertà. Perché è facile urlare al raggiro, alla prigione etc. solo quando la scelta non si confà alla nostra visione di cosa sarebbe meglio per tizio e caio.

Cose tristi

Tipo la morte del grande, immenso Jack Vance. Scrittore che ho sempre amato alla follia, autore di una serie di classici intramontabili (Linguaggi di Pao? Tschai? I Principi Demoni? La Terra Morente? Lyonesse? Tutti quei meravigliosi racconti? Fate voi! Avesse mai scritto qualcosa di brutto…), quasi sempre incentrati sul viaggio attraverso mondi esotici e culture stravaganti da conoscere se si vuole uscirne vivi. Uno spirito avventuroso con un gusto tutto particolare per l’ironia e la satira, con una prosa sensuale e infiorettata che immergeva nei colori, odori e sapori dei suoi coloratissimi universi, insomma ce ne fossero. Ci vorrebbe un monumento in ogni piazza, ci.

Tristezza, anche se Jack stava male da parecchi anni. E non posso nemmeno dirgli “vai Jack!”, altrimenti penso a Pino Scotto.

E salutiamo pure il grande Mulgrew Miller, colpito da ictus pochi giorni fa. Aveva suonato con una marea di musicisti, ed era un pianista della razza più black, influenzato da McCoy Tyner, Bud Powell, Oscar Peterson, Cedar Walton e Kenny Barron (suo alter ego più anziano). Un pilastro.

Ed era pure assai più giovane di Vance. Peccatissimo.

“Nel 1972, Richard Forthrast, fuggito nella Columbia Britannica per evitare rogne giudiziarie, lavora come guida da caccia specializzata, poi accumula una fortuna contrabbandando marijuana attraverso il confine tra Canada e Idaho. Passano gli anni, Richard torna negli Stati Uniti dopo l’amnistia concessa dal governo e investe la sua ricchezza in un vero e proprio impero. Crea anche T’Rain, un gioco di ruolo online di ambientazione fantasy con milioni di fan in tutto il mondo. Ma T’Rain è diverso dagli altri giochi del genere, perché l’oro virtuale che qui si scava e si conquista può essere trasformato in soldi nel mondo reale. Un gruppo di fanatici dell’informatica cerca di colpirlo creando Reamde, un virus che codifica tutti gli archivi elettronici e li conserva fino al pagamento di un riscatto. Si tratterebbe solo dell’ennesima truffa virtuale, se il virus non colpisse però le persone sbagliate: il ragazzo di Zula Forthrast, nipote di Richard, ha un passato da hacker, e ha appena concluso una transazione illegale vendendo dei numeri di carte di credito alla mafia russa. Quei dati sono stati resi inaccessibili da Reamde, perciò Zula e Peter vengono rapiti dai russi e portati nell’Estremo Oriente per aiutarli a rintracciare e colpire il fantomatico creatore di Reamde. Per la prima volta, il mondo virtuale rischia di scatenare una guerra senza esclusione di colpi: in palio c’è il destino del mondo reale.”

Questa la synossi italiana di Reamde, il nuovo, colossale libro di Neal Stephenson uscito e letto (da me) lo scorso anno. Si tratta di un’opera ciclopia, gigantesca, a tratti umoristica, a tratti delirante, assolutamente esplosiva e… beh, lasciate perdere questa aggettivazione idiota da parte mia, e partite dal presupposto che il buon Neal abbia fatto l’ennesimo centro che distrugge il bersaglio e lo pone più che mai nel novero degli scrittori realmente importanti di quest’epoca. Già, io lo sostengo da una vita e mezzo, ma il barbuto ragazzone di Fort Meade ce la mette tutta per confermare, libro dopo libro, quanto sarebbe meritato un riconoscimento pubblico della sua grandezza. Reamde contiene tutte le caratteristiche che rendono grande Stephenson: una storia di amplissimo respiro in cui brancolano personaggi improbabili che le provano di tutte per uscirne interi, con una fantozziana serie di coincidenze a unire mondi lontanissimi in una polveriera che, pagina dopo pagina, è sempre più pericolosa. La scrittura di Stephenson è, al solito, impareggiabile nel dettagliare un mondo dove natura e tecnologia si fondono senza alcuna soluzione di continuità: sa descrivere con verve, ritmo e naturalezza paradisi tropicali ricoperti di urbanizzazione incontrollata, strade ipertrafficate, ragnatele di cavi e tecnologia onnipervasiva così come se niente fosse, con un ritmo perfetto. Da tempo Stephenson ha fatto dell’infodump una forma d’arte a sè stante: addentrasi nel libro non è molto diverso da una bella navigazione internet, in cui flashback e dialoghi introducono e dettagliano argomenti dei più complessi e disparati per poi ritornare al normale flusso della narrazione. Un po’ come quando si clicca un link per approfondire e si trova una pagina bella quanto quella che leggevamo prima, ce la scorriamo tutta e siamo in grado di ritornare indietro arricchiti da informazione senza rumore di fondo. Non credo che il testo sia mai stato così vicino all’ipertesto, è probabile che mi dimentichi di qualche scrittore , e comunque pochissimi possono vantare una simile maestria. Neal tesse una trama complessa in cui si intersecano molte tematiche e molti sottotesti. Una volta stabilita ambientazione e personaggi, sembra quasi che faccia partire la simulazione lungo binari paralleli. Scrittori poco abili, o semplicemente meno abili, avrebbero fatto ricorso a pesanti deus ex machina per farli convergere. Stephenson si avvale del più semplice, realistico, ockamistico: l’errore, la sbadataggine, l’approssimazione, con le sue impreviste conseguenze che possono essere colte e fatte fruttare se si è particolarmente in gamba. Allo stesso tempo, sono molti i temi tipici di questo tempo che ribollono sotto la superficie: il terrorismo e l’intelligence, la Cina gigante dai piedi d’argilla, la compenetrazione fra mondo reale e virtuale anche oltre il predetto, l’enorme complessità tecnologica, culturale, economica che si agita dietro ad un MMORPG, il geeokdom e la diatriba sulla legittimità del “genere”, il reazionariato provinciale più profondo e pericoloso. E altro ancora: Stephenson maneggia tutto con disinvoltura e lo fa scivolare lungo la narrazione così, come se niente fosse. Sta al lettore soffermarsi a riflettere o lasciarsi trasportare dal turbine degli eventi. Il mondo è tutto interconnesso a portata di click, ogni singolo click può avere inavvertite conseguenze a chilometri di distanza, e poche cose come questo enorme affresco di thriller e azione a rotta di collo nel vecchio medium del libro possono farcelo capire, nei risvolti comici come in quelli drammatici.

      

Adesso, immaginatevi di girare, non so, per il Parco dei Mostri di Bomarzo. Vi aspettate, dietro una curva, di trovarci un qualche bestio pietrificato tipo quello che avete visto cento metri fa, e invece c’è un negro che gioca a Monopoli da solo tutto pensieroso. Ci restate per lo meno sbalestrati, no? Ecco, così mi sono sentito io quando ho saputo che Reamde era stato tradotto in italiano. Cioè, proprio non me l’aspettavo. La maniera in cui è stata realizzata la versione italiana è stata la molla per scrivere questo post, visto che sono secoli che non parlo di libri. Perché vedete, la Fanucci l’ha diviso in due libri, uno di 752 pagine e un altro di 704, venduti a 17.50 euri ciascuno, per un totale di 35 euri. Nel primo non c’è scritto assolutamente che si tratta di una prima parte. Il titolo sembra quello di un qualsiasi film di Steven Seagal. La copertina generica e sgommonissima. La traduzione non so. Sapete quanto vi costa, in inglese? Oggi c’è l’edizione cartonata, comprandolo da Amazon.com appena 12.51 più spedizione, e quindi ve lo ritrovate in casa spendendo meno della metà. Appena 7,50 dollari invece per l’edizione Kindle. Il succo della questione, insomma?

Beh, è presto detto: se siete di quelle persone a cui piace leggere, che ci si tuffano, amano stare dietro all’attualità letteraria e a sporcarvi le mani, prendendovi la briga di conoscere e valutare in prima persona senza l’imbeccata del quotidiano puzzone di turno, se insomma per parafrasare Quirino Principe siete “lettori forti”, dovreste fare un bel favore a voi stessi: abituatevi a leggere in inglese. Potrete disporre di una tavola imbandita 365 giorni l’anno a prezzi convenientissimi, e non vi farete più fregare da un panorama editoriale sempre più dilettantesco e scrauso che toglie dalla circolazione qualsiasi libro una volta esaurita la prima tiratura. Fatelo per voi stessi. Contribuirete pure alla percentuale degli “italiani che non leggono”, per il semplice fatto che non comprate nei soliti punti vendita. In realtà sarete troppo evoluti per cattive edizioni a prezzi da rapina, e vi rifornirete altrove. Certo, se tutti facessero così le bovere biggole libbbrerie fallirebbero. E allora? Lo faranno comunque, perché sono obsolete, è solo questione di tempo. Voi armatevi per fare a meno di loro e del pessimo sistema editoriale nostrano.

Se c’è una roba che in questi giorni mi garba veramente da mori’ è Die Young, l’ultima canzone di Ke$ha. Mi piacevano anche altre robe sue, ma questa è veramente il top. Ha la forza trascinante e cazzara che poteva avere l’anno scorso Party Rock Anthem (altro numero di genio). Tra ritmo che pesta e mette in moto il pancreas, flow della strofa davvero acchiappante e un bridge-ritornello fenomenali, è veramente una hit da urlo. Una hit pop che è molto più fica di quel che può essere il rock mainstream di oggi, perché se uno accende la radio che ci può trovare? Finocchiacci come i Muse, i Radiohead o i Kasabian o roba del genere, insomma, nessun genitore si preoccuperà perché il figlio ascolta dei tizi che piagnucolano e si preoccupano della crisi energetica. Due palle. Invece Ke$ha, con la sua immagine pubblica da white trash queen che si trascina da una festa all’altra ubriacandosi con alcolici pezzenti all’insegna della più totale e disinibita irresponsabilità, è la cosa più simile ai Mötley Crüe del 1983 che possiate trovare in giro, e non fatevi ingannare dal fatto che non sia ruock coi guitarroni ma electropop del più ballabile: tutto, ma proprio tutto quello che c’era di pericoloso e dannoso (e quindi bello) in Shout At The Devil si ritrova paro paro in Ke$ha, soprattutto in Die Young. Guardate il video fichissimo:

Visto? C’è tutto l’armamentario di Shout At The Devil: il party irresponsabile e degenerato, Satana, la cccioga, il trombaggio etc etc. Lo dice pure Alice Cooper, che Ke$ha è molto più rock di tanto rock da boy scout che va per la maggiore, e da che mondo è mondo Alice Cooper ha sempre ragione. E ora, a me gli occhi. Ke$ha naturalmente ha un team di professionisti coi coglioni quadrati che lavorano per lei e curano la sua promozione. E oggi la promozione si combatte su una miriade di fronti, fra cui l’interwebs. L’entourage promozionale di Ke$ha ha sicuramente visto, negli ultimi anni, il proliferare di pagine su pagine interwebbare dove una composita congerie di deragliati mentali, imbecilli, ignoranti, stupidi e ritardati scandaglia minuziosamente i videoclip di Lady GaGa o Beyoncè per decifrarne il simbolismo demoplutogiudoilluminatonegro. Cosa c’è di meglio che riempire un video esattamente di tutte le cazzate a cui credono queste teste a travaso, che così lo diffondono viralmente nei loro forum e nei loro blog? E’ classico e giusto: visto che gli idioti sono tanti, serviti di loro – sono pure gratis. Detto fatto:

Questa era la sbroc queen Fiorella Mannoia, ma basta usare Google per trovare migliaia di imbecilli come lei. Per esempio, cercate Ke$ha “Die Young” Illuminati e verrete inondati da merda purissima qualità oro. E solo in italiano, figuriamoci! Morale della favola: qua la mano Ke’, qua la mano staff, avete babbato i gonzi e  fatto un fracco di danaro sfruttando i loro encefali di medusa e la loro abissale stupidità. Vi voglio bene. Colgo l’occasione per dire che la porta dell’Inferno si trova sotto gli uffici della Garrincha Records, che pubblica cose talmente schifose che all’Inferno sono proibite per oltraggio al pudore.

Ancora una volta le forze restaurative remano contro all’Arte e alla Cvltura. E’ successo di nuovo a Caltagruate, dove Ermenio Sbrenna, pittore e performatore, si è visto negato il permesso della sua nuova installazione “Circomene Derelicta” in quanto, a detta degli inquirenti, oltremodo oltraggiosa nei confronti di quella morale del Signore Iddio Gesù (cane, aggiungeremmo in un secondo tempo) che tanto bene ha fatto all’arte, vedasi i dipinti lì di coso, Giotto e Michelangelo, ma tuttavia non possiamo in nessun modo far sì che tutto ciò, lo scembio, diventi un’abitudine, perché ne va della nostra buona nomea, ed dovrebbe essere chiaro a tutti, ma in un paese deficitario di culture e attenzioni, in cui i valori sono in crisi e si mandano in pensione giornalisti preparati come Salvatore Gualla e critici d’arte di fama internazionale come Alybrando Siraghi, ecco, in questo paese per forza poi che scende il PIL, per forza poi che le agenzie di ratingsz declassano tutto e mandano in malora le piccole aziende che lavorano sul chilometro zero mentre arroganti calciatori come Balotelli danno un cattivo messaggio ai giovani, cioè che è bello essere negri e trombare le vedettes, che poi che cultura ci viene fuori se non quella dell’ignoranza e della plebe che non capisce un cazzo, proprio di questa gente qui che sarebbe l’anima del paese insomma il grande processo restaurativo spinge le spinte centrifughe dell’arte a coalizzarsi in un groviglio liquamoso di rizomi e sterco, di incrostazioni del linguaggio e della semantica dell’ovvio per cui al giorno d’oggi

un giovane uscito dal liceo non è in grado di estemporarizzare su due piedi i molteplici dislivelli di lettura della Vita Nova di dantesca memoria, ma allo stesso tempo sa dirvi tutte le formazioni dell’Atalanta dal 1979 a oggi e per di più crede che furbescamente agendo per conto terzi con attività di basso conio morale e intellettuale sia possibile costruirsi non già un futuro, ma quantomeno un presente coincidente con l’acquisto dell’iPhone con cui andare in giro e fare le foto ai negri, oppure da ricaricare mediante l’estrinsecazione di performance sessuali dietro pagamento, che secondo alcuni è pur sempre un’instradazione alla via dell’imprenditoria personale, secondo altri però e io mi ci schiero altro non è che la deriva ultima della corporeità post-meretriciale in cui ormai l’intelletto è totalmente staccato dal corpo e lo utilizza con disinvoltura come mezzo per ottenere qualche osso di gabbiano, qualche enfisema nei kiwi, qualche lavanda gastrica gratis dal reumatologo della mutua

che stando ad alcune voci di corridoio, tuttavia piuttosto affidabili, è pure manfruito e lo acciuffa a chilometri nel tabarén ogni sabato sera per modico prezzo dietro il Mercato Ortofrutticolo, dimmi un po’ te ora se un mestiere onorato come quello del medico oggi dev’essere pure infestato da’ finocchi, sono veramente tempacci di crisi che si rifrangono come un’onda malsana e miasmatica nella vita di tutta la società, al punto che ormai fra un Presidente della Repubblica e uno sbozzascalini non v’è più alcun possibile distinguo, e anzi è ancor più rimarcata l’uguaglianza fra le due parti e si ritiene ormai giusto e scontato asserire che chi dice il contrario sia un negro

che si chiama pure Billi ed è bravo a basket, questa disciplina sportiva che allena i muscoli senza aguzzare l’ingegno e quindi è tutta una deriva entropica questa qui che prende la società dove i tracciati individuali si atomizzano in un brodo primordiale inconcludente reificato dalla pertecipazione agli Europei di Calcio ove si uccidono cani per permettere ai milionari di tirare calci al pallone, tutto questo uccide l’intelletto dei nostri giovani che troveranno più interesse ad andare in giro sulla spiaggia a vendere gli accendini perché è così che ha iniziato Balotelli, che se magari si fosse dedicato ad uno sport di grandi valori morali tipo il rugby avrebbe smesso già in giovane età di essere negro e oggi occuperebbe un palazzo a Milano con le sue installazioni artistiche che mettono in crisi la società dei consumi e basta che mi sono rotto il cazzo dio merda, oh.

(ps: post n. 666!)


Afterhours? Carmen Stronzoli? Baustelle? Assolutamente no, queste merde sono bandite. Ma non un GG Allin d’annata, che se non vi garba andatevene a fare in culo ascoltando non so, i Modena City Ramblers.

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