Archive for ottobre, 2010


Motivi per cui Halloween è una figata:
1) festa, quindi crapula;
2) estranea alle nostre tradizioni, quindi il papo s’incazza;
3) Elvira;
4) tutto il resto che segua, più o meno, le linee guida enunziate lì sopra.

Vi lascio con un classico dei magnifici Coven:

Ovvero Black Sabbath tratta dal loro capolavoro del 1970 Witchcraft Destroys Minds and Reap Souls. Le immagini sono tratte dal film Haxan, che chi non l’ha mai visto c’ha la cicca in culo.

O’ revuàr.

La Piccola Storica Libreria aveva quasi quarant’anni di storia sul groppone. Sita in un bell’edificio del lungomare, era LA libreria del lungomare medesimo, nonché appunto una delle più vecchie della città. Legioni su legioni di turisti, nei fine settimana, vi si fermavano. Diversi libri sono stati presentati, nei limiti concessi dall’angusto spazio, lì dentro. Molti l’hanno vista come un simbolo culturale cittadino (i maligni potrebbero dire che, data la vivacità e la ricchezza della cultura locale, pure i cassonetti potrebbero rivendicare lo stesso titolo). Più volte ho acquistato libri nella PSL, semplicemente perché comoda da raggiungere, e poi perché nei primi anni ’90 la libreria che avevo davanti casa cambiò gestione e diventò una cagata. Compravo alla PSL ma senza sviluppare alcun affetto per il posto: l’atteggiamento della proprietaria, indisponente, con quell’aria da Gran Sacerdotessa della Cultura di Staminchia, e la maleducata spocchia del commesso storico, me lo hanno sempre impedito. Da tempo i miei sentimenti riguardo alla PSL erano mutati, ma per un motivo ben preciso, cioè l’amicizia che mi lega alle due commesse che hanno lavorato lì negli ultimi… boh, tot anni, non ricordo bene. Se capitavo lì era semplicemente per loro, altrimenti che me ne fregava. Oltre ad essere mie amiche, le due erano le tipiche commesse che l’amante della piccola libreria si aspetta: gentili, capaci di consigliare il cliente, alla mano. L’esatto contrario della Signora Proprietaria, che da Oplita del Bene d.o.p. qual é, le ha sempre sfruttate e mal retribuite, approfittandosi di loro sin troppo. Ma qui si divaga.

E’ successo, solo un due-tre anni fa, che accanto alla PLS abbia aperto un punto vendita di una Grande Catena, in uno dei più begli e storici edifici della città. Una mossa non certo garbata né corretta, ne convengo, soprattutto da parte dell’amministrazione comunale. La Signora Proprietaria era pure inizialmente in trattativa per gestire tutto lei, poi è stata brutalmente scavalcata da altri dotati di canali privilegiati. Di questo, e del conseguente dimezzamento dell’incasso, certo non le si può fare alcuna colpa. Di tutto il resto, però, sì. La Signora Proprietaria ha investito per anni i soldi nella sua Casa Editrice (assurda, senza mercato, uno sfogo vanesio) sottraendoli alla libreria, che ha iniziato a cadere a pezzi. Quei soldi potevano essere impiegati per assumere regolarmente le commesse e per ristrutturare l’edificio, magari rimettere pure a nuovo il fatiscente piano superiore e il vecchio locale della caldaia. Credo che questi due punti fossero essenziali per la sopravvivenza. In seguito alla ristrutturazione la PSL avrebbe potuto programmare stagioni di incontri e presentazioni con tanto di aperitivi e robette sfiziosette, quelle cose dove la gente va per darsi un tono e far vedere che c’è stata – sapete, quelle stronzate che cementano i rapporti all’interno del giro culturalvelleitario locale, con tutte le conseguenze del caso. E poi, volete farvi una risatina? Quando stava per uscire un bestseller annunciato, la Signora Proprietaria sdegnosa diceva alle sue sottoposte “no, Commessa, ne ordiniamo solo un paio (sottinteso, che a me quella roba plebea non garba)”, così che se uno passava di lì a cercare il nuovo di Sophie Kinsella, e non era il primo o il secondo a farlo, usciva e lo andava a compare alla Grande Catena lì accanto. Bella mossa, vero? Ora la PSL ha chiuso i battenti. Per infliggere il colpo mortale e chiedere il conto salatissimo di dieci-quindici anni di errori è bastata la concorrenza di un bruttissimo punto vendita. Bruttissimo perché i punti vendita della Grande Catena, quando di proprietà diretta della Catena stessa, sono ottimi: nelle grandi città come Roma o Milano ne ho visti di splendidi con gran dovizia di libri (pure stranieri), cd e dvd, e personale preparato. Nella mia città ha aperto invece un franchising che ha solo il marchio, e fa schifo: organizzato malissimo, allestito peggio, sembra il reparto libri di un supermercato.

Naturalmente questo episodio è fonte di sbroc a 360 gradi, perché la retorica della piccola libreria contro il grande colosso è un topos irrinunciabile di chi scambia l’estetica della cultura con la cultura, e quindi è meritevole di napalm.

C’è chi sostiene che sia un attentato alla cultura.
Chi sostiene che le Grandi Catene abbiano solo i best seller e le novità e trascurino il resto (il che è falso: nel punto vendita della Grande Catena c’erano molti più libri che nella PSL).
Chi si scaglia, più genericamente, contro le nuove generazioni che non comprano più libri o tempora o mores.
Chi dà la colpa a internet che ti permette di comprare tutto magari spendendo addirittura meno e senza avere a che fare con persone altezzose e sgradevoli.
Chi infine vede il tutto parte di un gigantesco disegno orchestrato dai banchieri per instupidire la gente col Grande Fratello e le scie chimiche.

Niente di tutto questo, coglioni. E’ solo che il meno adatto alla sopravvivenza ha ceduto. Tutto lì. L’unico dispiacere è che le mie amiche dovranno trovarsi un altro lavoro.

Playa de Las Americas è la capitale turistica di Tenerife e, di riflesso, delle Canarie tutte. E’ singolare come sia nata, cioè dal niente nell’arco di una trentina d’anni. Sorge su un aspro suolo vulcanico, inadatto alla coltivazione e punteggiato lungo la cosa da pochi villaggi di pescatori. Questo era l’aspetto della costa, cioè, finché un imprenditore spagnolo non ha avuto l’idea di comprare quel terreno inutilizzabile e lottizzarlo a fini turistici: nasce così Playa de Las Americas, come radicale trasformazione antropodiretta delle brulle distese di terreno che circondano il villaggio di Los Cristianos (anch’esso destinato ad un rapido e radicale cambiamento). E’ la meta turistica preferita per chi va a Tenerife, perché c’è davvero di tutto. Alberghi e residence di ogni tipo e livello si susseguono senza sosta, alternandosi a negozi, ristoranti, boutique, piccoli centri commerciali e così via, sulla costa come sulle colline. Tutto è ben costruito, ordinato, pulito, ben raggiungibile a piedi o coi mezzi pubblici, e le cose costano poco rispetto a qui. Una delle mosse più azzeccate e intelligenti è stata la creazione di una passeggiata di circa otto km priva di barriere architettoniche che percorre tutta l’area costiera. Ovunque voi siate potete raggiungere a piedi tutte le spiagge e le zone, fermandovi a riposare nella miriadi di localetti e ristoranti, oppure curiosando fra i negozi, o ancora svolgendo semplicemente attività aerobica a piedi, in bici, in rollerblade, in skateboard etc.

Se, partendo dall’estremità sudest di Playa de Las Americas, decideste di camminare per circa cinque km verso nordovest, finireste a Playa del Duque, una spiaggia meravigliosa cui questa foto qui sopra non rende giustizia veramente per un cazzo. Sono molti i motivi che la rendono spettacolare, e il minore è la bellezza del mare, perché quello è bello su tutta l’isola. Playa del Duque appare quasi all’improvviso dopo aver girato attorno ad una bellissima scogliera su cui si trova una villa bellissima, quasi intagliata nella scogliera stessa. Detta villa, assieme agli altri eleganti, variopinti, piacevoli edifici che si affacciano sulla passeggiata, dona un non so che di esotico e alieno alla spiaggia, tanto che sembra presa di peso da qualche racconto di Jack Vance e dunque da 1 a 10 è figa 11 solo per questo.

Come su tutte le spiagge di Tenerife, la balneazione è liberissima. Tuttavia per chi volesse ci sono ombrelloni e lettini da affittare per un prezzo giornaliero davvero modico. Gli ombrelloni, larghi e ricoperti di paglia, ben distanziati gli uni dagli altri, invitano subito ad un bel riposo all’ombra; tuttavia sono i lettini a meritare un elogio smisurato, perché al mondo non ho mai provato mai niente di così comodo, confortevole, rilassante, piacevole. Morbidi il giusto, larghi a sufficienza, solidi eppure leggeri, si adattano perfettamente a qualunque schiena e postura e il materasso beige si intona con la sabbia senza disturbare subdolamente l’occhio con l’emissione di riflessi cromatici mentre si è intenti nella lettura, nella bevuta, nella mangiata o in altre attività di capitale importanza – ehi, ora che ci penso non ce ne sono mica altre. Spira sempre un vento carezzevole che, a venticinque gradi di caldo secco, rende la permanenza a Playa del Duque davvero memorabile, assieme al fatto che un paio d’ambulanti vendono deliziosa frutta fresca e bibite ghiacciate – questo significa che non devi neppure interrompere la degustazione del lettino per poterti rifocillare & dissetare. Credetemi, se amate l’ozio non c’è niente che possa superare la convergenza di piaceri offerti da Playa del Duque. Parola di uno che è diciottesimo dan nella posizione yoga della Balena Spiaggiata.

Sento già i mugugni di alcune persone, quelle di scarsa intelligenza e modesto acume. “Oh, ti vieni a vantare.” “Sentilo lì che fa il guappo.” “Sbroc sbroc.” Invece no, cari i miei mongoloidi. Il punto è: data la paradisiacità estrema di Playa del Duque, essa deriva in parte da fattori naturali, in parte dall’intervento umano. Intervento che ha modificato, cambiato, alterato geografia e paesaggio ove necessario al fine di massimizzare l’esperienza totale termonucleare che è lo svacco olimpico. Possiamo riassumere:

1) Playa del Duque è un bene;
2) PDD è un bene grazie all’intervento umano che ne ha alterato la natura;
3) Alterare il paesaggio, la geografia, la natura è giusto almeno quanto la medicina e tutto il resto, altrimenti tutta questa evoluzione sarebbe buona per pulircisi il cazzo.

Da questo deriva, necessariamente, che:

4) Se è un bene intervenire su ciò che è esterno da noi, a buon diritto è ancora meglio intervenire su di noi. E intendo in questo modo la via della genetica, della bioingegneria, della cibernetica, della ricerca sulle staminali e di tutto quanto intervenga sull’umano per migliorarlo e spingerlo oltre i suoi limiti naturali, quegli stessi limiti che renderebbero Playa del Duque una delle tante spiagge rocciose e aguzze dal bel mare che ci sono per Tenerife e per il mondo.

E quindi, chiunque venga a sostenere che dobbiamo fermarci no sostituirci a Dio sbroc sbroc va preso a pigne nello sterno. Playa del Duque è la dimostrazione che si può e si deve andare avanti a modificare noi stessi per rendere sempre più piacevole la nostra vita. Chi si troverà al di qua del biogenetic transgenic cybernetic divide per questioni filosofico-religiose-sbroccotroniche finirà per fare la fine del topo. Ed è logico, fa parte di quell’evoluzione che taluni negano con protervia, affidandosi magari alle boiate di Harun Yahya. Negare l’evoluzione significa negare Playa del Duque. Ma siccome Playa del Duque esiste, Harun Yahya vada a pigliarsi pingoni in culo all’ingresso della FI-PI-LI vicino Pisa, e lo stesso faccia chi ne segue la dottrina.

Blog riaperto

Ebbene sì, essendo tornato, avviso del riaprimento del bloggamento.

Blog stop

Me ne vo per un pajo di settimane, quindi per un pochino i commenti saranno bloccati, che non voglio tornare e trovarmi il catafurgione di commenti da smaltire. Ok? Ok. Ciao.

Passano gli anni, i secoli e i millenni, l’uomo si evolve, con la scienza e la ragione calcia via Manitù e Zeus e alla fine pure Dio, e non parlo di quello che purtroppo è morto a maggio, non è che se la passi tanto bene. Tuttavia, a dimostrazione del fatto che l’algoritmo umano, nelle sue dinamiche sociali come in quelle interiori, è rimasto sempre lo stesso, del Mito abbiamo sempre bisogno. Del Mito come narrazione epica e fondativa su cui si cementa l’identità comunitaria. Mito che una volta prendeva le forme leggendarie delle varie Iliadi, Odissee, Edde, Vede, Bibbie, Corani e chissà che altri testi, fino all’epica americana della Frontiera, e che negli anni della cultura industriale e razionalista in cui (per fortuna, aggiungo subito) viviamo, si incarna in modi solo apparentemente diversi per rispondere allo stesso bisogno – disegnare un panorama di riferimenti comuni e condivisi, di punti certi, un passato  dai cui discende il presente e di cui sentirsi, consapevolmente o meno, orgogliosi custodi. Siamo all’adesso, adesso (cit.). Dove lo troviamo il Mito? Nella musica, nella letteratura, nell’arte. Ovunque si formi un movimento, nacqua una scena, si sviluppi un’estetica che guadagni nel tempo un consistente numero di ammiratori, seguaci, studiosi. Il Movimento nasce, viene sviluppato e portato avanti dai suoi artisti principali, approfondito e ulteriormente sviscerato dai bravi artigiani, studiato e analizzato dai critici, amato e coltivato dagli appassionati. Padri Fondatori, Innovatori, Grandi, Artigiani, Ultime Frontiere sono le figure che, come eroi e divinità, costellano l’immaginario di legioni di entusiasti. Succede quasi sempre che il neofita si addentri nella scoperta del passato per comprendere gli stili, i sommovimenti, le rivoluzioni, le estetiche individuali e le dialettiche interne al Movimento che preferisce. Movimento che, in maniera inevitabile, prima o poi finisce per essere assorbito nel mainstream e farsi da parte per lasciare i riflettori ad un altro Movimento più giovane. Il Movimento che ha creato un Mito, in realtà, non si è affatto estinto; solo, continua la propria vita lontano dalle grandi ribalte. Succederà ancora? Here falls the donkey, ed ecco il vero fulcro del qui presente postsz, figlio di un’amena discussione internettara con lui.

Prendiamo il jazz. Quante volte avete sentito dire, con tono sconsolato e disilluso, che “il jazz è morto”? Immagino innumerevoli, se siete fra gli appassionati. In realtà non è morto affatto, solo si è fatto Mito, che per definizione è remoto e lontano, e intanto il mondo è cambiato. Fino agli anni ’70, diciamo, interessi & passioni erano molto più limitati in numero. Si suddividevano essenzialmente nella fruizione di musica (dal vivo come su disco), libri, film, che di conseguenza alimentavano mercati molto più grossi visto che concentravano quasi tutte le spese hobbistiche delle persone.  Adesso è tutto cambiato, e i soldi li possiamo spendere in moda, viaggi low cost, videogiochi, attrezzature sportive e chi più ne ha più ne metta, grazie al progresso tecnologico e alle economie di scala che hanno abbassato i prezzi in maniera costante. Contemporaneamente, l’industria dei beni culturali negli ultimi dieci anni ha dovuto lottare furiosamente contro i fenomeni di sharing p2p, i negozi si sono trovati la concorrenza dei rivenditori online, tutte le mosse sbagliate per riprendere in mano la situazione sono state fatte e così siamo arrivati all’attuale situazione di disgregazione atomica.

Ora, un piccolo esempio. Il musicista X che suona la musica Y ha un sacco d’idee. Fosse uscito in una qualsiasi decade del ‘900, la sua storia sarebbe stata all’incirca questa: una casa discografica, major o indie, avrebbe deciso di investire su di lui con una certa lungimiranza, offrendogli un primo contratto per due o tre dischi, glieli avrebbe prodotti e avrebbe svolto la promozione. X, nell’ipotesi che non si parli di un fenomeno usa e getta, si sarebbe fatto il culo a suonare il più possibile dal vivo aumentando progressivamente il numero di fan, sviluppando il suo personale discorso, ed infine sarebbe approdato ad una sua dimensione all’interno del contesto generale. Fama planetaria o culto, poco importa, le variabili in gioco sono tante ed esulano dal discorso, c’é stato spazio per i Pink Floyd come per i 13th Floor Elevators, per Louis Armstrong come per Webster Young. Adesso è tutta un’altra storia. Molte case discografiche, anche indipendenti, hanno la stessa mentalità da squalo delle attuali major, cambiano solo i numeri, e puntare su caproni che assicurano quantomeno di non andare in perdità purché si conformino ad uno standard accettato (esempio tipico: il mondo del metal dell’ultimo decennio) è spesso preferito al rischio. Inoltre registrare un album costa molto meno, trucchi in studio permettono di accorciare di molto i tempi e far sembrare bravissimi dei perfetti stronzi – gli stessi che poi sul palco fanno schifo e durano poco. Poco perché, se vuoi campare, devi fare una cosa: suonare, suonare e suonare in lungo e in largo.

E così oggi un musicista bravo bravissimo suppppplìme si trova la grande fortuna di poter fare tutto da sè, col pieno controllo della propria attività, e la grande sfortuna di essere una goccia in un mare di informazione. Stando così le cose, non c’è più spazio per il Mito, che ha bisogno di figure di richiamo overground, quelli delle grandi cifre che colpiscano l’immaginazione generale, e di altri non meno talentuosi in retrovia a cementare, espandere, fortificare e diffondere. Mike Reed, lì sopra in foto, è bravissimo e porta avanti una serie di progetti di grande interesse. Probabilmente non lo avete mai sentito nominare. Mike si produce i suoi dischi da sè, li mette in vendita da CdBaby, insegna e suona un sacco dal vivo, e fa un grande uso di social network e strategie autopromozionali per farsi conoscere. Ce la fa a campare così, ma riuscirà ad aggiungere un nuovo capitolo dal Mito, alla Grande Narrazione del jazz, senza avere un numero consistente di ammiratori devoti che ne spargano il verbo, senza rilasciare interviste ai media non di settorie, senza grossi marketing discografici? Credo proprio di no, e questo indipendentemente dal suo talento di batterista, compositore e leader. Lo aspetta un undergroundato di ferro, di cui comunque non sembra proprio lamentarsi.

Jason Moran è un talento addirittura prodigioso che sta ottenendo riconoscimenti davvero importanti. Scoperto e lanciato da due colossi come Steve Coleman e Greg Osby, in dieci anni ha sviluppato un discorso talmente originale e significativo che lo ha portato, in questi giorni, ad essere uno dei vincitori annuali del fondo per arte e ricerca della Fondazione McArthur. Ha inciso quasi dieci album da leader e ha partecipato a varie sessioni di altri musicisti, lasciando una traccia importante per il piano e in generale il jazz a venire. Gli sono pure state commissionate opere per occasioni speciali. Riuscirà ad aggiungere il suo nome al Mito? Pur essendone all’altezza, deve fare i conti anche con l’oste, il pubblico. Pubblico che si accultura e si abbevera del Mito, com’é logico e giusto, ma poi per pigrizia o altro usa il Mito come metro e non come punto di partenza per conoscere quello che c’é intorno. Il Mito, con la grande forza gravitazionale della nostalgia, rassicura e consola quando sarebbe necessario invece fare uno sforzo in più e zittire l’orrendo coro che salmodia “una volta qui era tutta campagna”.

Nel jazz il problema è forte perché ormai il Mito ha assunto la sua fisionomia compiuta da tempo: dalla fase degli anni ’20 a metà anni ’50 è stato una delle forze creative con i riflettori puntati addosso, poi l’arrivo del rock gli ha progressivamente tolto lo spazio, in particolare negli anni ’60, e da lì l’epopea si considera (a torto) finita. Se fermate uno per strada e gli chiedete di nominarvi un musicista jazz, se va bene vi risponderà col nome di un Mito ormai morto o col silenzio (se va male con Enrico Rava). Non ci sono più stati artisti in grado di uscire dalla nicchia e bucare il mainstream – l’ultimo è stato Wynton Marsalis venticinque anni fa. Oggi, se le stelle si allineeranno per bene, Christian Scott e appunto Jason Moran potrebbero farcela. Poi c’è una marea di talenti, anche rispettati e rinomati, ma sempre all’interno del giro – che si tratti di carriere giovani come quelle di Logan Richiardson, Sean Jones e Tia Fuller, o ben consolidate come James Carter, Matthew Shipp, Terence Blanchard e Orrin Evans. Per dirla col bellissimo documentario Icons Among Us: Jazz In The Present Tense, c’è una rivoluzione silenziosa in atto. Basta saperla ascoltare e capire, senza perdersi nel nostalgismo, addirittura per epoche neppure vissute in prima persona. Eldorado è finita, ora c’è da guardarsi intorno. E quindi, diventare cercatori attivi e capire. TANSTAAFL!

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