E’ un bel periodo per gli appassionati di GRR Martin, questo qui. Non solo possiamo gustarci la riduzione tv di A Game of Thrones a cura della sempre ottima HBO, ma a Luglio uscirà il nuovo libro, A Dance With Dragons. Dio canaccio, ce n’è abbastanza per fibrillare emettendo energia a costo zero. Personalmente, mi preparo all’arrivo del quinto volume della saga rileggendomi tutto dall’inizio. E proprio la rilettura mi ha schiuso un orizzonte nuovo su A Song Of Ice And Fire, e per due motivi. Il primo legato alla lingua (stavolta leggo l’origgginale), il secondo legato a una roba che non so bene come definirla ma me l’ha fatta notare un amico, e c’entra con la questione dei punti di vista multipli e la radicale modernità del magnum opus martiniano.

Partiamo dalla lingua. Ma che merda di traduzione hanno fatto alla Mondadori? Hanno pescato il traduttore a caso fra i disoccupati? In italiano, Martin è un buon narratore fluido dalla mano sicura con una gigantesca abilità nel gestire trame complesse ad amplissimo respiro. In inglese, Martin è pure uno scrittore di gran razza. Molte scelte di traduzione sono sciatte, banali, affrettate, tirate via, dilettantesche, quando invece la cura dei termini è molto meticolosa e sempre volta ad un effetto particolare. Per dirne una banalissima, prendiamo il personaggio di Petyr Baelish, soprannominato in inglese Littlefinger per la bassa statura e il fisico mingherlino. Questo soprannome gli fu dato, in segno di disprezzo, dal lord presso cui Baelish faceva da scudiero. Littlefinger, Mignolo, come dire “mezza sega”. Se chiami uno Mignolo, l’intento canzonatorio è evidente, si presta pure all’allusione sessuale. Alla luce di tutto questo, alla luce del fatto che il little finger sia a tutti gli effetti il mignolo, come lo chiami in italiano Petyr “Littlefinger” Baelish? Ma Petyr “Ditocorto” Baelish, ovviamente, perdendo d’un colpo tutta l’immediatezza e i sottintesi ecc. ecc. Altro settore disastrato, i dialoghi. In italiano, non c’è alcuna differenza fra la parlata del garzone dello scannagatti e il Lord di sangue blu della famiglia più prestigiosa e antica del continente. Com’è ovvio, in inglese le differenze e le sfumature ci sono, non è tutto appiattito su una lingua comune media. E poi, colori, umori e sapori. Martin ha sempre professato la sua ammirazione per Jack Vance, e si vede in lungo e in largo nelle descrizioni di usi, costumi, odori, colori delle varie terre. Si indulge spesso e volentieri sulle vesti, sui cibi, sui colori abbinati agli odori e ai riflessi ambientali, per creare un clima esotico e fascinoso – dalle sfumature di grigio e azzurro di Grande Inverno, alle rigogliose terre dei fiumi, alle coloratissime e stravaganti Città Libere, c’è sempre una tinta esotica che insaporisce ogni frase e fa vivere l’ambientazione. La versione Mondadori compila elenchi di vestiti e tessuti e cibarie come fossero listini di atelier e menù di ristoranti. Ho fatto solo qualche macroscopico esempio, eh. Per tagliare corto, magari se ne fossero occupati Riccardo Valla o Vittorio Curtoni… i risultati sarebbero stati ben altri. Cazzo e ricazzo.

L’altra questione è leggermente più incasinata e sono sicuro che farò un garbuglio di scarsa comprensibilità. Vabbeh, m’importa una sega, tanto leggete voi. La prima volta che lessi ASOIAF fui colpito da quel particolare respiro, da romanzo para-storico. Qualcosa tipo Leo Tolstoj incontra Frank Herbert, ma in salsa di fantasy relativamente vanceiana. Questa approssimazione demente può andare bene sulla superficie, ma poi si rivela del tutto inadeguata. Possiamo certo dire che ASOIAF è un romanzo corale, visto il gran numero di protagonisti. E’ però evidente, ad un certo punto, che i protagonisti della storia sono essenzialmente due: il continente di Westeros e la lotta per il potere, filtrati attraverso il prisma di un miliardo di punti di vista. Martin gestisce questi punti di vista multipli in maniera esemplare, visto che ogni volta che “entriamo” in un personaggio la visuale resta ancorata saldamente alla sua esperienza, senza alcun narratore onniscente, senza che trapeli qualcosa dai punti di vista di altri personaggi in altri capitoli. Il lettore può sapere di più del personaggio protagonista del capitolo che sta leggendo, ma questo fatto è controbilanciato dalla potenziale falsità delle notizie: l’affresco degli eventi è sempre incompiuto e pieno di ambiguità. Per esempio, in tal capitolo dedicato a tale personaggio succede l’evento X. In certi capitoli successivi, alcuni personaggi vengono a sapere di X e in base a loro congetture si comportano come se X = Y, altri in altri capitoli ancora come se X = Z. Nessuno di loro ha assistito ad X, tuttavia ne interpretano le conseguenze in maniera soggettiva, con gioia dell’effetto farfalla. Pensate a questo effetto farfall che si riverbera sulle popolazioni, sulle alleanze, sugli equilibri, per avere un’idea di come il mosaico finale sia sempre incompleto e fallace.

Non solo: la storia ha radici nei fatti di quindici anni prima. Un passato che non è esplicitato nero su bianco da annali e cronache in appendice, ma viene solo narrato dai personaggi, a frammenti.Il lettore può ricostruire in parte gli eventi passati attraverso elementi disseminati nei vari capitoli da narratori non attendibili e dalla loro conoscenza limitata e parziale. Dunque abbiamo un passato storico concreto, perché determina le condizioni di partenza della scacchiera, ma che arriva al lettore in modo da disorientarlo e metterlo fuori strada anche rispetto alle vicende in corso. Ed è qui che casca l’asinaccio: la frammentazioni di una storia attraverso una serie di punti di vista solo parzialmente attendibili e con un retroterra storico inesatto e viziato dai punti di vista medesimi è un elemento tipicamente postmoderno. Dunque, sebbene lo scorrere degli eventi non sia temporalmente dissociato e a spirale (tipo Comma 22 o V), ma per linee parallele, Martin è riuscito in una sintesi davvero sorprendente e originale, dio fromboliere. Oh certo, poi “è solo fantasy”, dirà il diversamente intelligente là in fondo. Bene, spero ti catturi Vargo Hoat.

Non c’entra un cazzo, è solo per decorare la pagina e ricompensare il lettore per le fatiche.