Era notte fonda quando, a casa dell’ispettore Camogli, squillò il telefono.
“Pronto?”
“Jack, sono Fransi. Sei sveglio?”
“Ora sì, mortacci tua. Dimmi.”
“La contessa de Molibdenis. L’hanno trovata morta un’ora fa. Una dose letale di Autan (o veleno di cobra). Corri subito!”
“Ma perché proprio io? Non ci poteva andare Cacace? O Palinsesti?”
“No, tu. Ricordi il caso Volscro?”
Già, il caso Volscro. E chi se lo scorda più? Lenny Volscro, il più pericoloso sicario della Trinacria, aveva rapito tre bagnanti per farsi consegnare un motoscafo con cui violare le acque internazionali e fuggire al sicuro nei Caraibi. Sfortuna volle che sua figlia Adelina se ne invaghì e scappò con lui, e ad oggi nessuno ne sa più niente.
“Me lo ricordo sì. E’ vero, quella volta potevo fare qualcosa ma ho preferito di no, e tutto per fare uno spregio a quel pezzo dimmmerda di Lampredotti che mi batteva sempre a calcio balilla. D’accordo, vado.”

Villa Molibdenis dominava una vasta area dalla cima di un colle fortificato. Era difficile introdurvisi senza far scattare allarmi, guardiacaccia o trappole di vario tipo e misura, ma non impossibile per un esperto killer – ripensò per un attimo a Paolo Gronchio, suo compagno d’Accademia che poi si votò al crimine. Divenne un virtuoso dell’omicidio su commissione, talmente bravo che quasi gli dispiacque doverlo insufflare di piombo durante la rapina alla Central Bank Of San Guiduglio. Questi pensieri lo accompagnarono fino al cancello della villa, già affollata per il via vai di poliziotti, paramedici e giornalisti. Raggiunse l’ingresso dopo aver aggirato la piscina. “Salve ispettore, me segua, uè chi scta pizz’ c’aa muzzariell’ ce scta a fa na pumarol’en gopp’!” gli disse l’appuntato Esposito, accompagnandolo sulla scena del delitto. Ebbe un mancamento: la contessa era come esplosa dall’interno e tutte le viscere sparpagliate in giro per la stanza. “Un’ovvia conseguenza di morso da gufo marino che qualcuno deve aver introdotto furtivamente nella magione”, pensò fra sé, quando una voce lo interruppe: “Volere gualgosa da bere, zignore?”

Era il maggiordomo Magombo, tutto livrea, guanti bianchi, sorriso discreto, che gli porgeva una coppa di Orloff Gran Riserva 1812. Lo osservò meglio. Un maggiordomo. Una scena del delitto. C’era qualche legame che però gli sfuggiva. Ma cosa? Ma mentre stava per rispondere la molla nella sua mente scattò ancora una volta e capì.
L’ispettore Camogli estrasse il distintivo, puntò la pistola in direzione del maggiordomo ed esclamò: “Arrestate quest’uomo!”

Tutti i suoi colleghi, la scientifica e i paramedici intenti nel loro duro lavoro di raccolta delle prove si girarono di scatto. Già, come avevano fatto a basta dio bestia che palle tanto lo sappiamo, dio cane, è stato il negro, bastava scriverlo in copertina.