Oggi Facebook mi ha portato questo articolo. Si tratta di un appello scritto da Franco Mussida, chitarrista della PFM nonché titolare di una scuola di musica di ottima reputazione, per la salvaguardia di quella musica popolare dai grandi valori che oggi stenterebbe un bel po’. L’articolo contiene anche cose condivisibili, condite però da un forte senso di o tempora o mores!, e soprattutto denuncia l’assoluta e totale incomprensione di come sia cambiato il mondo (musicale e non) negli ultimi vent’anni. Ma proprio zero. Ho scritto qualche tempo fa un post sulla natura di questi cambiamenti, e non starò a riperli qui. Le considerazioni le facevo per il jazz, ma sono facilmente generalizzabili.

Mussida rileva giustamente che il mercato discografico è in supercrisi, che per arrivare in cima alla classifica basti ormai il freakazoide fresco di X Factor con duemila copie vendute nella prima settimana e successivo (nonché meritato) inabissamento, e che l’industria miope e attenta solo al profitto alla fine ha rotto tutto. Tutte cose vere, ma che dimostrano una prospettiva limitatissima e poco legata all’attualità – fare i nomi di Elton John, Sting e Peter Gabriel del resto non ti fa partire col piede giusto. Sostenere che gli ultimi scampoli di vitalità nella musica popolare li abbia dati Gabriel (comunque un grande musicista, eh) significa aver ignorato sistematicamente roba tipo Tool, Alice In Chains, Pantera, Rage Against The Machine, Massive Attack, DJ Shadow, Deftones, giusto per citare entità di grande successo artisticommerciale partita negli anni ’90 e ben nota pure da noi. Mussida sembra nostalgico dei grandi movimenti e delle rappresentazioni generazionali, ma è destinato a conficcarsi stalagmiti nel baugigi: non è più possibile. Le condizioni socioeconomiche sono troppo diverse e i costumi troppo cambiati. Se il rock ha inciso profondamente sull’evoluzione del costume e del sentire, oggi le spinte oltraggiose sono state completamente riassorbite. La linea che da Chuck Berry passa per Rolling Stones, Alice Cooper e New York Dolls fino a Rob Zombie e Marilyn Manson ormai si è interrotta per l’impossibilità di spingere i confini del rappresentabile ancora più in là senza perdere visibilità mainstream: oggi ci si scandalizza per finta di fronte agli oltraggi calcolatissimi di Lady GaGa (da queste parti apprezzatissima, a proposito, come ogni cosa spettacolare e divertente). L’ascolto si è frantumato in nicchie che nessuna forza può ricomporre, visto che gli interessi e gli stimoli di un singolo sono oggi moltissimi quando prima c’era la musica e basta.

Le case discografiche, major in primis, naturalmente sono colpevolissime: rivolta ogni attenzione alla massimizzazione del profitto per soddisfare gli azionisti, prive ormai di figure come Ahmet Ertegun, hanno scelto di non investire più a lungo termine sulle carriere ma di buttare subito via a calci con non fa il botto al primo disco. Continua così per dieci anni (diciamo dal ’95 al ’05), e vedi che succede, soprattutto in concomitanza con l’esplosione del p2p? Desertificazione, merda che straborda dalle classifiche, nessuno che compra più i dischi, mega investimenti pubblicitari ormai a perdere perché le vendite non li ripagano. E concerti, in proporzione, sempre più affollati, soprattutto in America dove la cultura della musica dal vivo è molto forte e molto sentita. E qui affiora tutta l’altra metà del cielo, la trasformazione che il mercato ha subito e che ha dato molto più potere e responsabilità al singolo musicista. Che ora può e deve innanzitutto maturare il più possibile, magari suonando live un casino, poi incidere e distribuirsi un cd ai concerti e via internet (v. il benemerito CdBaby), bypassando la distribuzione normale. Molti musicisti in America vanno avanti così, perché lì il mercato e la mentalità lo consentono. Questo porta ad una particolare sinergia fra artisti e pubblico, e quindi si formano le comunità (anche vastissime) di appassionati di musica e concerti, autosufficienti e indipendenti, estranee ed impermeabili alle mode, incuranti del successo usa e getta, capaci di proliferare al di fuori delle grosse etichette, le più colpite dalla crisi. Il modello di business musicale di cui i Grateful Dead furono indiscussi pionieri si è rivelato vincente. Mussida non sa niente di tutto questo, è evidente, perché in caso contrario cercherebbe di capire se e come una cosa del genere potrebbe prendere piede anche da noi. No, la sua conclusione è talmente allucinante che merita di essere riportata qui sotto in bella calligrafia:

“Le istituzioni dovrebbero metterci lo zampino, offrire ai ragazzi occasioni per sperimentare a prescindere dal mercato. Si dovrebbero incentivare i locali a riconvertirsi in luoghi per ascoltare e ascoltarsi. Mi riferisco ai salotti e agli assessorati che continuano a considerare la Musica popolare come sottocultura… E’ giusto continuare a puntare sui-mega concerti da centinaia di migliaia, da milioni di persone? Non sarebbe più sensato ripensare alla costruzione di un rapporto più «ravvicinato», ripartendo proprio dai piccoli locali delle nostre città? Se si affievolisce il valore della Musica popolare, che è poi quella più ascoltata, cantata, partecipata, rappresentata, si affievolisce il nostro «sentire comune», diventiamo tutti un po’ più deboli. Un po’ più soli.”

Oh certo, che gran soluzione, lo stato che interviene a favore di svantaggiati d’ogni tipo col pallino della musica. Come se non fosse bastata la catastrofica lezione del cinema. A Mussida consiglio di svegliarsi e guardare prima oltreoceano e poi farsi qualche domanda. E ancor prima, documentarsi su quanta bella musica ci sia in giro, di quella che in classifica magari non ci arriva, non incarna movimenti e ribellioni, ma spacca veramente il culo. Sting, Elton John, Peter Gabriel… bah, con questi presupposti si va poco avanti! E’ già tanto che non abbia parlato di Woodstock. E siccome si riesce solo a rimpiangere le Eldorado di turno, l’impasse durerà ancora a lungo, e continuerete a sentire cover band nei locali perché tanto al pubblico in media la musica nuova interessa poco, e il cane continua mordersi la coda pure se è un boxer.