Archive for marzo, 2010


Tra i musicisti più talentuosi in giro oggidì mi pare necessario fare il nome di Christian Scott, trombettista di New Orleans che sta facendo parlare molto di sè da qualche anno a questa parte. E, aggiungerei, giustamente. Non solo perché è giovane, bello, stiloso e supercool dalla testa ai piedi, e quindi perfetto anche per copertine e photosession patinate, ma proprio perché è bravo. E non solo: ha idee chiare, una lingua tagliente e una precisa visione progettuale della propria musica e della propria carriera. Se c’è un giovane che possa rappresentare il qui/oggi del jazz, per me è lui. I quattro album usciti dal 2006 a oggi ci mostrano un musicista che è stato capace di importare nel jazz ritmi e suoni propri di hip hop, funk ed r’n’b, in modi decisamente originali, così come le sonorità enigmatiche e minimali del post-rock ed un forte spirito antagonista, insofferente verso luoghi comuni, tradizioni imbalsamate e preconcetti. La sua formazione è stata certamente privilegiata: suo zio Donald Harrison (!), notando l’elevata propensione musicale del nipote, se lo porta in giro per un anno e mezzo sui palchi di mezzo mondo quando Christian è solo un sedicenne che suona da quattro anni. Questa esperienza ha permesso a Christian di farsi le ossa prestissimo in un contesto collaborativo, con una band di adulti ed esperti, arrivano quandi alla maggiore età con un bagaglio inestimabile di teoria e prassi. Da lì l’ingresso e la laurea presso il Creative Center Of Arts di New Orleans e la Berklee School Of Music (completata in metà del tempo normale), numerose vittorie in concorsi ed esibizioni, una fitta attività di turnista per musicisti jazz, soul e hip hop. Un rodaggio imponente e non comune, si capisce, che lo ha portato ad elaborare un suono, un’estetica, un’autorità all’età in cui la maggior parte dei musicisti di oggi inizia le prime incisioni e le prime avventure come sideman. Come trombettista, Scott si trova perfettamente a suo agio in ogni registro e in ogni tipo di situazione. Con la sordina, sul registro medio, con frasi eleganti dove le pause e le note hanno la stessa importanza, l’ombra di Miles Davis si fa evidente, ma con una notevole personalizzazione: il soffio diventa parte integrante di un suono che rende le frasi aeree e astratte. Immaginate un incrocio impossibile fra lo stile di Davis e quello di Ben Webster (durante i lenti ovviamente), o qualcosa di simile. Quando suona a tromba aperta, il suo fraseggio si fa incisivo e potente, con una sonorità spessa e grassa, tipicamente neworleansiana, dicendente diretta di Wynton Marsalis e soprattutto Terence Blanchard. E per quanto ben caratterizzati siano, individualmente, i dischi, il filo rosso che li unisce è chiaro: la batteria, dal rullante secco e metallico che accenta il backbeat, scolpisce uno spazio sonoro su cui tromba, piano e chitarra (sempre presenti) fluttuano e si intrecciano secondo trame ipnotiche, mentre al basso (elettrico o acustico a seconda dei casi) spetta il compito di ancorare la band e contemporaneamente di darle un’ulteriore pulsazione più elastica. La visione artistica di Christian è evidente: scrivere musica che sia oggi significativa, capace di elaborare gli stimoli sonori e sociali presenti in forma nuova e originale, facendosi allo stesso tempo carico dell’eredità jazzistica. Come testimonia la discografia realizzata fino ad oggi, ci siamo. La lucidità del giovine è impressionante.

Rewind That (2006)

L’apertura, affidata alla title track, mette subito in chiaro che non si scherza: un tagliente riff di chitarra, vamp di basso elettrico e batteria funk che disegnano un reticolo poliritmico implacabile che smuoverebbe un dimetrodonte, la tromba di Scott che entra sicura, prima in sordina per poi esplodere su note acute e potenti, assecondata dalla band che alza i toni e l’intensità di pari passo. C’è pure il piano elettrico, usato più che altro in funzione coloristica per stendere un tappeto liquido e funk, e l’eccellente tenore di Walter Smith III a duellare con tromba e chitarra. Rewind That, il brano, detta poi il passo a tutto il resto del cd, all’insegna di un jazz profondamente urbano, cupo, ritmicamente modernissimo, eppure arioso grazie alle splendide melodie elaborate dal leader (autore di quasi tutti i pezzi), sicuro di sè fin dal primo momento. I temi e le tessiture sonore hanno un deciso sentore di r&b odierno, inteso nel senso nobile del termine (che so, Lauryn Hill o Erykah Badu); i brani fluiscono con naturalezza uno nell’altro, e fin dai titoli disegnano arco narrativo sinusoidale fatto di momenti languidi, ma sempre con un ritmo nervoso che pulsa sottopelle, e altri muscolari e potenti, irrorati di moderno funk, hip hop e perfino elettronica. Non che siano presenti drum machine o campionatori, piuttosto la scansione ritmica rielabora pattern tipici della musica elettronica. L’illustre zio Donald Harrison fa la sua comparsa in pochi brani: una compatta e superfunkyzzata versione del classico So What, nella sua Paradise Found e nella magnifica Suicide, per me il brano capolavoro del disco, in cui il contributo harrisoniano è davvero di gran classe. Disco che spacca davvero il culo per profondità, idee, interplay ed esecuzione – a ventidue anni!

Anthem (2007)

La Concord decise di promuovere questo cd come “meditazione sull’uragano Katrina”, complice il fatto che Scott sia di NO e che un pezzo si chiami Katrina’s Eyes. In realtà Anthem è un disco che riflette, o indaga, o medita, fate voi, sull’insicurezza, il disagio, il pericolo e la paura in cui viviamo. Con un organico variabile in cui compaiono il fido Walter Smith III al sax tenore e Louis Fouchè al contralto, Esperanza Spaulding e Luques Cortis al basso/contrabbasso, Matt Stevens alla chitarra, Aaron Parks al piano e Marcus Gilmore alla batteria, Scott scrive di nuovo la maggior parte dei brani assorbendo input dal post rock e dalla musica minimalista americana (Philip Glass e Stephen Reich in particolare) per dipingere un universo plumbeo e raggelante. Spesso infatti il pianoforte indugia su ripetizioni e microvariazioni di cellule sonore minimali, percussive e spezzettate, suonate da Parks con un tocco leggero e risuonante che accentua l’effetto malinconico – l’inizio di Litany Against Fear, che apre il disco, è paradigmatico, con la breve figura glass-esca ribattuta dal pianista e la band che entra un pezzo alla volta, creando un’atmosfera cupa, di dolore partecipato. La potenza della sezione ritmica, rinforzata dal timbro metallico della chitarra di Stevens e da una batteria asciutta e minimale, crea un costante clima minaccioso e teso, rischiarato dalla splendida tromba di Christian Scott, da sola o in amichevole duello coi sassofoni. Il disco, con ammirevole coesione, prosegue lungo i binari dettati dal pezzo dapertura secondo un preciso percorso cinematico/narrativo. Re: è un pezzo ritmicamente molto potente con un forte sapore blues nell’accezione più dolente e letterale del termine; in Cease Fire, Scott e Fouchè disegnano un’incantevole melodia su un groove hip-funk coinvolgente; Dialect è un pezzo sinistro, con un piano ridotto al supporo ritmico e un’interazione di tromba e contralto sempre più serrata e stridente; The Uprising, dove Scott sviluppa il tema fino ad arrivare ad un climax ricco di speranza, ha un effetto catartico di grande suggestione; The 9 trasfigura l’antico jazz di New Orleans, procede come una processione guidata dai tre fiati che si rincorrono e si stimolano; la title track figura in due versioni, accomunate dallo stesso tema laconico affidato al piano, ma nella seconda, posta a conclusione del disco, c’è ospite Brother J dell’XClan a riassumere col suo perentorio rap tutte le tematiche dell’album. Disco davvero visionario e speciale, forse difficile da digerire lì per lì – per inciso io ho scoperto Christian Scott proprio grazie a questo cd, e c’ho faticato un po’, ma ritengo ne sia valsa la pena.

Live At Newport (2008)

Registrato, come suggerisce il titolo stesso, al Festival di Newport, questo lavoro testimonia l’eccellenza della band di Christian Scott pure dal vivo. Nella scaletta figurano alcuni pezzi nuovi – fra questi, Isadora troverà spazio nel disco in studio successivo. La qualità della registrazione è buona anche se il volume del mixaggio è stranamente basso. Ritroviamo Aaron Parks, Matt Stevens e Walter Smith III in una performance di grande intensità, che passa da toni sottomessi e intimi a fragorose esplosioni di energia con una naturalezza incredibile. L’iniziale Died In Love vive del contrasto fra una tromba che sussurra frasi enigmatiche e una sezione ritmica ribollente, con la batteria del bravissimo Jamire Williams che deforma a suo piacimento lo spazio sonoro. Altro pezzo da novanta è Rumor, un quarto d’ora introdotto dalla batteria su cui si innestano uno alla volta tutti gli altri strumenti: è un brano che cuoce a fuoco lento grazie agli eccellenti contributi di tutta la band. Forse il pezzo migliore del disco, in cui si mette in mostra la chitarra cerebrale di Matt Stevens. Per il resto le nuove versioni di Litany Against Fear, Anthem e Rewind That sono più lunghe e permettono ai solisti di esplorare in maniera più compiuta e approfondita atmosfera e melodia. Su Litany Against Fear la parte del leone spetta a Smith, che costruisce un assolo particolarmente coinvolgente, pieno di spigoli nel finale concitato, che avrebbe reso felice Joe Henderson! Formazione estremamente coesa, musicisti dalle idee chiare, esecuzione magistrale. Terzo passo nella giusta direzione. E poi considerate che al prezzo di un solo cd cè pure il dvd dello stesso concerto!

Yesterday You Said Tomorrow (2010)

Uscito un mesetto fa, YYST è un disco ambizioso, fin dalle note di copertina. Scott dichiara esplicitamente di voler creare musica che sia in relazione con gli accadimenti dei nostri tempi tanto quanto lo furono, negli anni ’60, le opere di Ornette Coleman, John Coltrane, Charles Mingus, Curtis Mayfield, Jimi Hendrix e Bob Dylan. La scelta di far registrare l’album da Rudy Van Gelder in persona, ormai ottantenne, per di più nei leggendari Van Gelder Studios del New Jersey, alza ulteriormente la posta. A questo punto potremmo pure aspettarci un disco pretenzioso e didascalico destinato al frizzo e al lazzo. Potremmo, se quelle parole fossero uscite dalla bocca di un mediocre cazzaro qualsiasi, tipo Morgan, Allevi o coso lì dei Baustelle. Ma non è il caso, visto che questo lavoro straordinario forse sintetizza e supera i suoi eccelenti predecessori. Il quintetto (oltre al leader, Matt Stevens alla chitarra, Milton Fletcher al piano, Kristopher Keith Funn al contrabasso e Jamire Williams alla batteria) sceglie un suono caldo e organico, massiccio, con la batteria in primo piano. Williams usa il suo strumento alla maniera “orchestrale” di Jack DeJohnette, ma bisogna immaginare un JDJ traslato nell’era della musica elettronica, di cui mima la percussione secca, e l’ampio uso di backbeat – già solo questo dà un taglio del tutto moderno al disco. Rispetto al passato, stavolta le influenze funk, rock e hip hop sono quasi subliminali, spesso nella forma di ostinati di piano e chitarra che artigliano i nervi come tanti piccoli uncini. KKPD apre il disco con un corposo riff di chitarra su cui Scott entra in sordina, per poi passare ad un esplosivo suono aperto che incendia l’atmosfera; il gruppo lo segue compatto nel progressivo aumentare di energia e aggressività. Stevens e Fletcher interagiscono così bene fra di loro, oltre che col leader, che il loro dialogo pare un brano nel brano. Segue The Eraser, un pezzo di Thom Yorke. Ecco, Christian Scott è stato talmente bravo da rendere bellissimo questo pezzo, notturno e melodico, veloce nel ritmo, rilassante in apparenza ma pervaso da un’indefinibile tensione sottocutanea – io l’originale non lo conoscevo, l’ho sentito per curiosità e non c’è verso, mi fa cagare! Due i lenti, Isadora e The Last Broken Heart, illuminate e originali rivistazioni dell’approccio Davis/Dorham alla ballad. Attimi di tranquillità relativa, pervasi come sono da un senso di rassegnazione e spossatezza. Il resto dell’album esibisce brani estremamente dinamici e belli, attraversati dal solito clima negativo e oscuro, con la fenomenale sezione ritmica che si contrae e si dilata in risposta alle esplorazioni dei solisti, una chitarra ora acida e hendrixiana ora gentile e lirica, e un leader impressionante per sicurezza e inventiva. Nel 2010 il Christian trombettista pare ancora più bravo di prima: il suo stile “sordina con soffio” è ancora più astratto e lieve, mentre quando è necessario spingere e attaccare alla gola appare ancora più sicuro, esibendo un fraseggio limpido e potente. Se voleste declinare il blues attraverso il jazz alla luce della musica e degli umori del 2010, Yesterday You Said Tomorrow è la risposta.

Il futuro, per questo giovanissimo talento, pare assicurato. Attendiamo con attenzione gli sviluppi sviluppevoli, ottimisti sul futuro della musica se c’è gente che, a 26 anni, è già riuscita a fare quattro dischi di tale levatura e a finire sulla copertina di Downbeat – che sarà quel che sarà, ma è pur sempre la più antica e autorevole rivista jazz mondiale. Concludo con un pezzo d’intervista che mi trova d’accordo su tutta la linea:

“I’ve had the experience of being around a lot of older musicians. I learned all these different styles and all the old guys said ‘amen to what you’re doing, if you have a vision.’ So I’ve never bought into ‘this is what it is, and if it’s not that, then it’s wrong,’ because most of the older musicians don’t feel like that, they just create. I’m not buying into trying to please people, worrying they won’t like my music.”

Che bello,
mi sento quasi come Elvezio quando fa i suoi bellissimi speciali! <!– –>

Recensione mvsicale

Baustelle
I Mistici dell’Occidente

(Warner)

Giudizio sintetico:

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L’altro giorno (o stamattina sul cesso) mi sono venute in mente alcune bryllanti considerazioni sul mondo dello spettacolo e i rapporti che esso intrattiene con la massa della popolazione, nonché l’articolarsi storico di tale rapporto in almeno tre fasi storiche, che m’è venuto in mente di scriverci un post, cioè questo qui in persona. Naturalmente, siete liberi di andarvene affanculo come al solito.

Premessa. Se c’è una premessa doverosa da fare, è quella dell’impulso a migliorare le proprie condizioni di vita. Che sia una possibilità concreta o un’illusione da mentecatti, si tratta di un impulso determinante nelle scelte di ogni individuo. E’ pure al centro di tante, innumerevoli narrazioni di successo, sia nel senso letterale di romanzi e film, sia nel senso di cronaca della vita di questa o quella celebrità. Quante volte abbiamo sentito la storia dalle stelle alle stalle di Louis Armstrong, per dire? L’aspetto “stelle–>stalle” in casi simili è parecchio insistito, in maniera sottilmente populista: Armstrong arrivò alle stelle, ma ci arrivò innanzitutto perché era un musicista di genio e un uomo di grande intelligenza, due qualità che non sono poi così diffuse. Scelse la via della musica per la consapevolezza del proprio talento, per passione e perché ai tempi diventare musicista di professione era una delle cose migliori che potessero capitare ad un negro. Questo dovrebbe anche far capire quanto la storia dei negri naif tutti istinto che suonano la tromba sono emerite cazzate: questa gente per vivere voleva e doveva suonare, e se non si faceva il culo sullo strumento per diventare un musicista coi coglioni non trovava un cazzo d’ingaggio. Così, en passant.

Filmi

Bellissima (1951) di Visconti è uno dei classici del cinema, di quello italiano e, a fare i precisoni, della corrente neorealista. La storia è arcinota: Maddalena, una madre di estrazione popolana, stravede per la figlioletta Maria e vuole darle a tutti i costi un grande futuro. A Cinecittà fanno audizioni per un film, così Maddalena fa tutti i sagrifizi possibili per portarci Maria e magari farle vincere la parte. Tra le varie maestranze e genti varie incontrate per Cinecittà, Maddalena si imbatte pure in uno che finge di essere un aiuto regista disponibile ad aiutare la bimba in cambio di compenso. Quando poi la bimba fa il provino e viene derisa da regista e aiutanti in blocco, Maddalena fa una scena epica e se ne va incazzata come un’ape, capisce di aver sbagliato tutto e, avvilita più che mai, sfancula pure il contratto che alla fine il regista le offre, accortosi che in effetti la bimba ha delle qualità.

Basta Guardarla (1971) di Luciano Salce è uno di quei film meritevoli di riscoperta e rivalutazione. Racconta la storia di Enrichetta, contadinella ciociara che viene reclutata, quasi per caso e dopo qualche dubbio, dalla compagnia itinerante di Silver Boy, artista d’avanspettacolo che batte tutti i teatri più scarcassati d’Italia. Enrichetta, ribattezzata subito Erica, scatena però la gelosia dell’altra vedette, Marisa do Sol, che aspetta l’occasione favorevole per farla cacciare, riuscendoci poi con un vile tranello. Erica però casca bene, perché finisce nella compagnia di Farfarello, più grande e più illustre di quella di Silver Boy, che precipita in disgrazia e fa un fiasco dopo l’altro. Erica diventa addirittura la primadonna dello show di Farfarello quando la vedette Pola Prima si infortuna, ma la vendicativa Marisa do Sol, che aspirava pure allo show di Farfarello, fa un casino pazzesco. Erica a quel punto molla e torna dal povero Silver.

Questi due filmi, usciti a distanza di vent’anni l’uno dall’altro, rappresentano due diverse riflessioni sul mondo dello spettacolo e sul suo mito. Nel primo film siamo ad uno stadio, diciamo così, ultraepico: Maddalena vuole spingere la figlia nel mondo del Cinemone, quello dei grandi registi e delle grandi produzioni e delle grandi star, quelle che vivono al di fuori della portata dei comuni mortali. Passare quel provino poteva significare, per la piccola Maria, l’inizio di una carriera alla corte dei Grandi Registi e del Grande Cinema, di cui emerge il lato meschino e miserabile. Nel secondo film cambiano completamente i toni, perché siamo dalle parti della commedia caricaturale, e cambia pure l’ambientazione: il mondo dell’avanspettacolo, delle compagnie sgangherate che si esibiscono di fronte alle platee paesane in numeri scollacciati e volgari, fatti di orrende canzoncine, ragazze seminude che ballano, battute di infimo livello e scenografie patetiche. Dal sogno di una madre che vorrebbe vedere sua figlia diventare grande attrice siamo passati al sogno di una contadina semianalfabeta che aspira a canticchiare e ballicchiare seminuda di fronte ad un pubblico di palato poco fino.  In entrambi i casi, si parla di personaggi con delle qualità al di sopra della media, perché alla piccola riconoscono le potenzialità dell’attrice, mentre Enrichetta è bellissima e sa muoversi, e tanto basta per diventare vedette di avanspettacolo. Volendo, si può estendere il ragionamento alle attrici principali dei due film: Anna Magnani (Maddalena) è certamente più brava che bella, e infatti grazie alla sua bravura s’è guadagnata un meritato posto nella storia. Maria Grazia Buccella (Enrichetta) è altrettanto certamente più bella che brava, di fatto è una caratterista efficace nelle parti ritagliate su di lei, e se non altro ha un piccolo seguito di affezionati (fra cui me medesimo). Entrambe hanno qualità che le differenziano dalla persona comune e spiegano come mai loro due sì e la vostra amica Genni no.

Nel tempo la soglia d’ammissione s’è abbassata, anche al di sotto di quel tanto di professionalità indispensabile richiesto. E’ uno di quei motivi per cui il cinema italiano è inguardabile. L’epoca del reality ha livellato completamente la soglia, capitalizzando sugli svantaggiati e sui casi umani che, col miraggio di diventare famosi e migliorare le proprie condizioni di vita, esibiscono la loro natura di troglominchioni a pile di fronte alle telecamere. Il discrimine è ora l’indifferenza all’amor proprio. Quanta dignità sei disposto a sacrificare per un quarto d’ora di celebrità? Questo spalanca le porte all’invasione dei caproni da reality o talent-show, facilissimi da giudicare e attaccare. Voglio dire, la Buccella forse non era una grande attrice, ma era di sicuro una bella donna e questo giustificava la sua presenza sullo schermo per interpretare i ruoli da bella svampita. Coi reality no, puoi puntare il dito e dire “guarda che ciccione, che mongoloide, che spastico, posso farlo anch’io anch’io anch’io che indecenza!” Andrà ancora avanti fino a che la gente non si sarà stufata, tranquilli. E di tutti questi reality, l’aspetto più ridicolo è quello del riciclaggio: relitti in gara per un nuovo quarto d’ora di celebrità all’Isola. E’ proprio qui che ci si ricollega all’attualità della scorsa settimana e ad Aldo Busi. Fino a poco tempo costui mi sembrava un imbecille amante della polemica gratuita, una persona volgare ed esibizionista che si nascondeva delle mutande della cultura, tipo Sgarbi per intendersi. Mi sembrava anche un’opinione largamente condivisa. Ora, Facebook alla mano, Busi è una specie di eroe, un rappresentante della Cultura, uno che non le manda a dire e che mette il dito nella piaga dell’ipocrisia della Rai e dell’Italia in generale. Non entro tanto in quel che ha detto Busi sul Papa e Abberlusconi, di per sé ha detto pure cose giuste, com’è vero che l’acqua è bagnata. Mi interessava sottolineare un altro aspetto: ormai nel reality si è codificata la figura dell’Espulso, la cui presenza garantisce la Polemica e di conseguenza strascichi, discorsi, articoli, ospitate e cazzabubbolate di cui beneficiano tanto l’Espulso quanto tutti i media di contorno. Stavolta si è puntato su un Espulso che rappresentasse la Cultura contrapposta alla Barbarie, Alto vs. Basso, secondo una dialettica usurata e trita ma sempre vincente, che provoca schieramenti opposti e ugualmente mongospastici.

Come si ricollega tutto ciò al discorso iniziale, a Bellissima e a Basta Guardarla? I due film fotografano l’aspirazione popolana alle luci della ribalta in due momenti storici differenti e con obiettivi differenti. I reality in sé dipingono la situazione corrente senza bisogno del film sul reality, almeno per ora. L’unica merce di scambio è la dignità personale, nessuna soglia di capacità minima è necessaria per avere almeno il quarto d’ora di celebrità. Il Bazaar ha spazzato via la Cattedrale e l’unico impedimento alla realizzazione del sogno di fama (anche se breve) è dato dall’elevatissima concorrenza. E cosa ci dà una buona misura del livello di decadenza (che a me diverte molto, sia chiaro)? Niente di tutto questo, quanto piuttosto il fatto che a passare per esponente della Cultura ci sia una nullità assoluta come Aldo Busi, che non a caso raschia il barile all’Isola.

Se penso che, negli anni ’70, a New York, il dibattito era fra due titani come Tom Wolfe e Leonard Bernstein (entrambi miei idoli, già che ci siamo)…

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Pellicole decrittate:
“Mine Vaganti” di Ferzan Ozpetek

Premessa: la rubrica delle Pellicole Decrittate tratta solo ed esclusivamente di film mai guardati. Si basa sull’assunto che, da pochi elementi tratti dalla cartella stampa (trama, attori, produzione, nazionalità, sponsorizzazione) sia possibile a priori stabilirne pregi e difetti.

Synossi: Tommaso è un concentrato di stimmate sociali mica da ridere, pensa un po’, è sia gay che terrone, visto che viene dal Salento e quindi sarà anche un virtuoso della pizzica (il che, a pensarci bene, è ben peggio che essere gayterroni). Insomma Tommaso lavora a Roma ma poi torna a casa in Puglia, a rivedere il caravanserraglio che è la sua famiglia, i Cantone, proprietari di un pastificio, numerosi come ogni genìa di terroni che si rispetti. Il ritorno di Tommaso è molto atteso, perché ognuno dei Cantone ha le sue aspettative. C’è la nonna partita di cervello che ancora non si rassegna al perduto ammmore, c’è la mamma che vive intrappolata nelle convenzioni borghesi, c’è il padre che insomma i finocchi gli garbano ma al forno, la zia più mongoloide della nonna, la sorella oppressa dall’inevitabile destino di casalinga, il fratello che forse non ha così voglia di dirigere il pastificio, e poi è manfruito pure lui. Tommaso pensa, e che è, ora se faccio coming out questi qui mi linciano…

Morale implicita: bravi, sì, fate i modernucci e sfornate i figli finocchi. Non vedete che portano solo dolore e lagrime, e distruggono la famiglia, cellula fondante della società costituita secondo i valori gristiani di Aggesuggrìsto? E invece voi no, continuate a fare le testine di vitello, a permettere ai vostri figliuoli di farselo stampare nel tabarèn dal verdurajo e di cantare I Will Survive ogni volta che litigano col moroso, anziché mandarli ai campi di rieducazione dell’Opus Ghei. Incoscienti, teste di cazzo, ecco cosa siete!

Giudizio finale: non tutti sanno che nell’ultima puntata di Ken Il Guerriero era prevista una morte ben peggiore per il tutto sommato povero Kaiou. Infatti nella sceneggiatura originale Ken avrebbe dovuto sconfiggere il primo demonio con la tecnica dell’Inferno Proiettante di Hokuto, che produce sul sistema nervoso dell’avversario danni paragonabili a sei mesi di visione 24/7 di Mine Vaganti. Amnesty International è intervenuta per impedire che una cosa tanto orribile fosse mostrata in un cartone animato, e francamente non ci sentiamo di dargli torto. Nemmeno le testuggini delle Galapagos che escono dal culo di chi, incautamente, si cimenti nella visione dell’esecranda pellicola.

Magggistrati maggistrati ewwywa i maggistrati!

La mia natura superficiale e vanesia nonché poco incline ad occuparsi di politicame, se non in funzione puramente anti-sbroc e più per il piacere fine a sè stesso di farlo che altro, se n'è stata bella tranquilla in questi giorni, visto tutto il casino e le urla sulle liste del Lazio la democrazia in pericolo sbroc sbroc di turno. Non mi ci avvicino nemmeno con una canna nemmeno stavolta, non preoccupatevi. E se foste preoccupati non me ne può fregare di meno, quindi zittini e bòni. E' che ho notato un particolare storto, una roba che non mi torna, un affare poco comprensibile, una scureggia durante l'assolo di Duane Allman che insomma non mettevo a fuoco. Poi ho focalizzato.

Torniamo a pochi anni fa. Quell'imbecille di Beppe Grillo tuonando e strepitando, come suo solito, dà l'avvio alla santificazione della figura del magistrato, sorta di pistolero solitario nel mondo corrotto e ingiusto dell'Italia del malaffare, pieno di intralci e impossibilitato a portare a termine i propri lavori, osteggiato in tutti i modi da politicame vario per mezzo di burocrazia e leggi di merda. E fin lì, pur nell'inconsulto ragliare grillesco, si può anche concordare, dopotutto. Basta farci quel tanto di tara per non diventare sostenitori dell'IdV, insomma. Nel frattempo ci si mette pure Abberlustoni che ogni tre per due inveisce contro le toghe rosse, una roba patetica ma di sicuro effetto presso i suoi sostenitori. Insomma la figura del magistrato diventa quella del portatore di giustizia con le mani legate. Ci sono almeno un paio di figure che emergono: il magistrato De Magistris (che dal nome pare nato a Paperopoli o Topolinia) e il magistrato… ecco… com'é… dov'é finita… ah, ecco, CLEMENTINA FORLEO! Vi ricordate, tutti d'accordo a sostenere quella coraggiosa donna che poi fu cassata dal tribunale di Milano e spedita a quello di Cremona ad occuparsi di altre robe, quella a cui fu addirittura levata la scorta, e allora vai Grillo For Forleo, Africa For Forleo, Clem vai scoppiali tutti, insomma, ci siamo capiti. Ecco, ora io mi chiedo: dov'è finita Clementina Forleo? Lontano dagli occhi lontano dal cuore, si direbbe, perché su Facebook di pagine dedicate alla Forleo ce ne sono appena un paio e la più affollata (e pure piuttosto aggiornata, con mia sorpresa) ha circa seimila fan – una miseria confronto al collega De Magistris, che totalizza dieci volte tanto, anche in termini di pagine a lui dedicate (sia di favorevoli che di avverse).

La domanda, a questo punto, è semplice: perché il Popolo Viola di Annozero non spende qualche litro di bile e indignazione settimanale pure per la Forleo, rimasta sola, sciagattata e senza scorta? Perché Travagghio, Di Pietro, Repubblica e compagine non battono i piedi per lei? Perché? Sarà, forse, perché la sua inchiesta voleva mettere il naso nel polverone della scalata a Unipol, Fassino, D'Alema etc., e quindi avrebbe sollevato un merdaio epico nel mondo politico-mediatico-culturale di riferimento del Popolo Viola di Annozero? E, immagino, siccome le indagini della Forleo andavano pure a rivoltare merda nei cassetti del governo in carica, è stata allontanata da TUTTI, spazzata sotto al tappeto come la polvere polverosa. Un comportamento da merde di prima scelta, ancor più da parte dei furry della magistratura. Magistratura che, a questo punto, mi pare più che decisa a giocare sporchissimo nell'orrido agone politico in corso, come braccio armato di uno schieramento disposto ad uccidere democrazia per salvare la democrazia. O qualcosa di simile. Detesto le dietrologie, i complottismi e tutto questo genere di segate. Tuttavia, il caso della Forleo mi pare emblematico, quantomeno, di una precisa volontà: attaccare lo Chavez di Arcore con ogni mezzo e mezzuccio e calpestare chiunque si metta di mezzo, anche (e soprattutto, in questo caso) se nell'esercizio delle sue funzioni. Complimenti vivissimi.

Credo che Wendy Combattente, qui sopra, sarebbe perfetta qualora decidessero di trarre un film da Bayonetta. Tornando in topic, non so bene come si evolverà la situazione. Abberlustoni pare stanco, affaticato, prova ne è il suo lungo silenzio – siccome parla sempre quando è sicuro di sè, è abbastanza evidente il momento di difficoltà. Dubito che si ripresenterà alle prossime elezioni, viste pure l'età e la salute. Ma dopo? A pensarci bene, credo che per allora i miei dischi saranno sempre al loro posto, quindi dovrei essere ragionevolmente al sicuro. Ad maiora, anzi, ad fanculum. E un pensiero alla Forleo, ormai Straniera Senza Nome di sergioleoniana memoria. Vorrei tanto diventasse come Bayonetta e per prima cosa sterminasse tutti quei viscidi che le hanno dato il benservito…

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Una ribollente cascata di merda

Sono andato con entusiasmo al cinema per vedere lAlice di Tim Burton. Il regista in questione mi piace moltissimo, il libro di Carroll è un classico immortale nonché uno dei miei libri preferiti, il lungometraggio Disney degli anni 50 resta un capolavoro, insomma, le premesse erano di lusso, assaporavo già con gli occhi una bellezza di film che non cé stato perché questo coso qui fa letteralmente sciogliere la merda in culo agli ippopotami. La storia in sè (il ritorno di Alice al Paese) è pure molto ganza, come lo è espandere la storia al di fuori dei confini di quella già nota in precedenza, secondo una prassi tipicamente farmeriana (nel senso di Philip Josè Farmer e di certi suoi libri). Cè il tocco burtonesco baroccogotico che è sempre un piacere, però stavolta ci si mette di mezzo un 3D fatto di merda: si abusa del rosso, che tende a sfaldare il 3D e ad infastidire gli occhi – imparate da James Cameron che ha scelto la gamma cromatica di Avatar in maniera molto intelligente! E fin qui non è niente. Il film è completamente privo di ritmo, si perde interesse nella prima mezzora, ci si trascina stancamente nei restanti novanta minuti, e listrionismo burtonesco che si materializza nelleccessiva, affettata e insopportabile presenza del Cappellaio Matto versione Depp, della serie "strizziamo locchio con laccoppiata vincente Burton-Depp, questo è un film di Burton, Burton Burton Burton", completa il danno in modo irreparabile.

Film di merda, incapace di camminare fino alla fine con le proprie gambe. Se servisse a Burton per intascare un sacco di soldi con cui co-prodursi il prossimo film, magari allaltezza del meraviglioso Sweeny Todd, allora potrei pure trovare un ruolo nelluniverso a questa sgommata fetida. Ma per ora non se ne parla, e poi tanto farebbe schifo lo stesso, quindi chi se ne frega. <!– –>

Di bazaar, cattedrali e pappagalli pisciosi

"La Cattedrale e il Bazaar" è il titolo di uno scritto piuttosto famoso di Eric S. Raymond. Nellambito dello sviluppo del software, lo scritto mette a paragone il modello tradizionale, la "cattedrale", con quello nuovo, il "bazaar". Il "bazaar" è il modello che si poggia sulla filosofia dellopen-source, e si basa sulla pubblicazione immediata di release funzionanti con codice disponibile in modo che gli utenti possano subito comunicare errori e malfunzionamenti, dare suggerimenti, addirittura offrirsi come sviluppatori. Un dialogo orizzontale che pone allo stesso livello autore e utilizzatori, snellisce lo sviluppo etc etc. Personalmente sono dellidea che il modello del bazaar vada bene per le prime fasi dello sviluppo – collaborazione gratuita, velocità di versionaggio, e cazzi vari. Qualora il software arrivasse a livelli qualitativi professionali, cè da smetterla di cantare Free Nelson Mandela e si deve passare rapidamente al modello della cattedrale, con compiti delineati e tutto il resto. Il ciclo stesso di vita del software ad un certo punto lo impone, è una questione di sopravvivenza e buonsenso.

Questa breve introduzione chiaramente è lanticamera di una pappardellaccia indigesta che siete sempre in tempo ad evitarvi. La questione è: quella che Robert Hughes chiama "cultura del piagnisteo", la democrazia ignorante, ha fatto danni culturali enormi accelerati ancor più dallera internettara (che peraltro adoro).

Partiamo da due assunti di base:

– Siamo tutti uguali, nel senso che godiamo degli stessi diritti e degli stessi doveri;
– Non siamo tutti uguali, nel senso che ogni persona è diversa per formazione, capacità e attitudini.

Ogni cittadino occidentale può, teoricamente, nascere in una famiglia di pestamerde semianalfabeti e laurearsi in fisica nucleare con 110 e lode e fare master al MIT e progettare una mega bomba al vibranio che gli darà fama imperitura. Può, come può pure il rampollo della famiglia aristocratica – le condizioni per diventare fisico nucleare bla bla ci dovrebbero essere per tutti,ricchi e poveri, ma questo non significa che la conoscenza debba essere regalata. Dal momento che non si è tutti uguali, ci saranno quelli per cui è impossibile, mettiamo perché non arrivano a capire, perché non ne hanno voglia, perché si sono accorti di preferire altre cose. Quale che sia il motivo, chi se ne frega. Il percorso di studi deve selezionare chi ha la capacità per farcela, per formare realmente una figura di un certo tipo. Chi non ce la fa, pazienza: non è che venga discriminato, semplicemente non si è dimostrato allaltezza delle prove. Di conseguenza, lapparato educativo non deve andare incontro a tutti quelli che non ce la fanno, cioè non deve rendere i programmi di studio delle minchiate, privandoli di valore.

Ripeto, per i più stupidi là in fondo che iniziano già con lo sbrocching: non ci devono essere impedimenti economici di sorta per ottenere unistruzione, ma allo stesso tempo non si deve nemmeno svendere questa istruzione.

Il percorso di studio & formazione forgia. Sembra una frase fatta, ma non è vero: ti dà un Linguaggio (tutto il bagaglio di conoscenze acquisite) per descrivere e comprendere, e un metodo che ti permette di capire la correttezza epistemologica delle altrui formulazioni. Come esempio, prendiamo un farmaco su cui cé molta discussione. Uno dice che non funziona perché non si lega ai recettori XYZ, il suo interlocutore risponde che non basta perché nei test clinici l85% dei casi ha dimostrato la capacità del farmaco di legarsi ai recettori FIPS e di ottenere parte dei risultati voluti. Se ora arrivasse un terzo che dice che il farmaco non funziona per linflusso delle maree, gli altri due non farebbero più che bene a indicargli la porta? Naturalmente sì, perché fra di loro discutono un problema farmaceutico nel linguaggio farmaceutico, mentre il terzo vaneggia stronzate. Ora, se uno stronzeggia al bar, a casa, in giro, nessun problema. Ma le stronzate, date dalla completa mancanza di Linguaggio, devono stare ben al di fuori da dove possano fare danni – cioè, ben al di fuori di qualsiasi contesto serio, importante. E quindi le stronzate vanneo bene al Bazaar, ma tenetele fuori dalla Cattedrale. Inquinando la Cattedrale con le stronzate da Bazaar, si riesce solo ed esclusivamente a svalutare la conoscenza, il metodo, in ultima analisi la cultura stessa.

Questo allucinante pippone mi viene dal profondo senso di nausea e vomito procuratomi da dei post, peraltro divertentissimi di per sè, letti su Perle Complottiste e Improbabili Complotti (qui, ). Post che trattano lo stesso argomento, ovvero due tizi laureati con 110 e lode in economia e commercio a base di signoraggio versione complottista-sbroc. I siti complottardi naturalmente sono andati in brodo di giuggiole, anche università accorgere sbroc sbroc, potete immaginarvelo. Quello che invece noialtri possiamo dedurre da un 110 e lode dato a tesi scritte in un italiano abominevole, piene di strafalcioni inaccettabili proprio per chi dovrebbe aver studiato economia (o almeno letto "Economia For Dummies"), prive di fonti che non siano siti complottisti, è il livello delle due università responsabili. Guarda caso, sono istituti privati con il 110 e lode compreso nellonerosa retta annuale. Episodi come questi avvicinano pericolosamente il Bazaar alla Cattedrale, che invece dovrebbe essere sorvegliata a vista da tanti cecchini. Eppure il pernicioso avvicinamento del Bazaar alla Cattedrale è perfettamente funzionale alla democrazia ignorante, e inversioni di rotta, allorizzonte, non si vedono. Ora, vedo già i meno svegli che mi accusano di essere a favore delle caste e dei privilegi o altre minchiate. No, care testine di stronzo: lho già scritto che chiunque può/deve poter essere in grado di apprendere il Linguaggio per confrontarsi nella Cattedrale, e col Linguaggio produrre nuove teorie e nuovi paradigmi. Anzi, più ce nè meglio è, perché la cultura non è un incancrenito ammasso statico, ma va avanti. La Cattedrale in sè è un immagine che evoca immutabilità. E abbastanza vero: da una parte ci sono le nozioni consolidate, dallaltra le nuove che si fanno avanti portando contenuti, potenzialmente, innovativi. Benissimo, è proprio quello che ci vuole. Il terreno di discussione fra il Vecchio
e il Nuovo, però, non prescinde dal Linguaggio. Fuori di metafora, chi continua a propinare le minchiate dellartista o scienziato o critico o quel che volete che è creativo e naif e isolato dal mondo e un po tocco, beh, è una testa di cazzo che non vuole ammettere la propria ignoranza. Sapete quegli idioti che quando gli obiettate qualche sfondone vi rispondono che "pure Einstein fu bocciato in matematica gne gne sbroc sbroc?" Ecco, uguale. 

Naturalmente, posso essere anche più cattivo e stronzo di così. La logica della Cattedrale e del Bazaar, per quanto mi riguarda, andrebbe pure applicata al voto, come teorizzato da illustri crani (da Platone ad Heinlein). E qui passo e chiudo, vado a vedere quanto mi costa laurearmi con una tesi sui rettiliani sbroc sbroc. <!– –>

Mondo crüedele!

Molti di voi, spero, riconosceranno senza problemi i Mötley Crüe nella foto qui sopra. Che grandi  che sono stati, ai tempi doro! Quattro giovani teste di minchia dei sobborghi losangeleni, quattro scapestrati mezzi delinquenti con la passione per il rock ad alto volume, una concezione della vita assolutamente edonistica e tutta la fame necessaria unirono le forze per arrivare là dove pochi arrivano: alla vetta, al vertice, al ruolo certificato di "peso massimo" che può fare il cazzo che vuole. "I want it all and I want it now" lhanno cantato i Queen, ma nessuno meglio dei Crüe ha sintetizzato ed espresso questa filosofia. Con loro, la debosciatezza e la dissoluzione legate allo stile di vita della rockstar raggiungono livelli mai sfiorati prima. Musicalmente, uniscono i ritornelli melodici e orecchiabili dei Kiss con lo spirito da strada degli Aerosmith, corroborandoli con un roccioso armamentario di riff metal à la Judas Priest e uno spirito corrosivo punk figlio dei Dead Boys – questo, a grandi linee, il contenuto del loro esordio "Too Fast For Love" dell82. Lo stile del gruppo resterà grosso modo lo stesso per tutta lepoca aurea, quella che si conclude con "Dr Feelgood" del 1989, fatto salvo un naturale miglioramento della produzione sonora e un notevole raffinamento degli arrangiamenti. Dicevo della marcitudine dei Crüe: difficile pensare a quattro laureati ad Harvard guardando le facce di Vince, Mick, Nikki e Tommy; aggiungiamo lascolto dei loro album, tutti pieni di inni alla droga, al sesso sempre più selvaggio, allirresponsabilità, allubriacatura da denaro facile che ti compra tutto e tutti, alle coltellate nei bassifondi, alla cattiva condotta e alla pericolosità sociale, per dissipare ogni dubbio. I Crüe volevano solo una cosa dalla vita, fare successo e vivere un 24/7 di crapula, e tanti saluti a chiunque si trovasse nel mezzo, che si parli di stanze dalbergo o batteristi degli Hanoi Rocks. Il talento musicale ha permesso loro di confezionare una serie di album memorabili, ormai  classici del rock; il momento favorevole ha fatto sì che detti album vendessero squinquiliardi di copie, consentendo ai quattro di soddisfare a più riprese tutti i loro inesauribili appetiti. Missione compiuta. Nella loro carriera, i Crüe hanno di fatto rappresentato e celebrato sè stessi: cera ben poca differenza fra la loro vita e ciò che cantavano nei testi. Probabilmente non avreste mai incontrato Nikki Sixx al supermercato vestito in abiti di scena, ma a parte questo, i Crüe, definiti poser dai metallari trù, erano molto più reali e veri dei Manowar di turno. Va da sé che nessuno di loro sarebbe il genero ideale: una madre sana di cervello non vorrebbe mai vedere la propria figlia assieme ad un drogato marcio vestito come un trans che fa il commesso in una bottega sadomaso, che si sbatte venti donne diverse al giorno gratis e spende il resto in coca, puttane e strip bar, e ha abbastanza soldi per spedire le eventuali ingravidate ad abortire, per evitare rotture di palle.

Se voleste documentarvi  un po con una spesa minima, pigliatevi quel capolavoro di "Shout At The Devil":

In generale tutti i loro album fino all89 sono a colpo sicuro, e si pesca sempre bene. Nel caso vi interessassero pure retroscena e deboscerie, cè la celebre autobiografia "The Dirt":

Ora immagino già che qualcuno mi dica tipo che, insomma, sì ganzo, ma sono tutte cose note, chi scrivi a fare? Beh, forse non vi rendete conto di una cosa: siamo sotto il tiro incrociato dei moralizzatori e degli indignati, dei Vespi e dei Santori, degli Artisti che Devono Dare Un Messaggio, del Dove Finiremo, dei La Ccccioga nel Rock, la Corruzione dei Valori, gli Artisti Devono Essere Responsabili. I maledetti pedagoghi stanno prendendo fin troppo spazio ultimamente. Rompono i coglioni, e sono miserandi e mongoloidi (sì, detto proprio come insulto, capito mongolo?). Bisogna spaccare il muso a questo coro urlante di moralizzatori di merda nonchè opportunisti dei più viscidi, e per farlo, dobbiamo ostentare il nostro credo.

Irresponsabilità.
Crapula.
Debosceria.
Droga.
Rocknrollsz.
Puttane.

Vivere tutto questo per interposta persona attraverso i dischi dei Mötley Crüe è una figata. Morgan non resisterebbe ai germi che Vince Neil gli starnutirebbe in faccia. Filosofi e conduttori moralizzanti dei miei coglioni neppure. Nè tantomeno Codacons, associazioni genitori, Moige, Opus Ghei e similia. No no no. Nasce il movimento clandestino di resistenza ai moralisti. Contro i messaggi edificanti, larte pedagogica e  il flagello del pedigree etico (tm Admiraglio).

W i Mötley Crüe!

W Satana!!

W la fruizione dei Mötley Crüe e di Satana, la crapula rockettara, donne gnude ome la rena, droga, vomito, scuregge nellacquasantiera etc etc. Di tutto e di più. I Mötley Crüe si sono applicati con zelo e talento per realizzare il proprio sogno, che li ha trasformati nei Cattivi Esempi per eccellenza. Cattivi Esempi che hanno predicato a milioni di persone nellarco di trentanni il loro vangelo del vizio. E con quali risultati, quali ripercussioni sociali? Nessuna, semplice. Come non cè nessuna correlazione fra le vendite dei Mötley Crüe e la diffusione di droga, prostituzione, gioco dazzardo e delinquenza minorile. Mettetevi lanimo in pace: le giovani teste di cazzo sono tali in parte per meriti propri, e in parte per meriti genitoriali. E spesso non ascoltano nemmeno i Mötley Crüe. Anzi, siccome i positivi e morali U2 hanno venduto di più, è più probabile che il diciottenne che ieri vi ha rapinato per comprarsi un po di coca abbia in casa una copia di "Achtung Baby", piuttosto che una di "Girls Girls Girls". Del resto, se i buoni e i cattivi esempi fossero qualcosa di più che parole al vento, gli U2 avrebbero dovuto aver cambiato il mondo già tre o quattro volte. <!– –>

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